Pensieri circolari

se i pensieri vanno dritti spesso sbagliano mira

16/02/10

Oltre i cortei e le elezioni

Qualcuno pensa ancora che la degenerazione dell'Italia attualmente in corso possa essere fermata con cortei e elezioni.
Alla fine dell'ottocento i lavoratori, gli sfruttati di allora, hanno cominciato a capire che serviva un lavoro più profondo, di formazione e organizzazione, di diffusione delle conoscenze e delle basi etiche. Bisogna riprendere da allora ma evitando le derive ideologiche pur vaccinandosi dall'invadenza dei profittatori. Un lavoro lungo, di generazioni.
In questa maniera sono riusciti a mettere in discussione il privilegio dei ricchi su tutti gli altri. Ma con gli anni i ricchi hanno capito che dovevano organizzarsi per riprendere il predominio. Dopo un po' di tentativi mal riusciti (golpe Borghese) e di contraccolpi sfruttati al meglio (terrorismo) hanno sostenuto la Lega e Berlusconi, fatto la P2 e tutto il resto. Adesso tocca agli sfruttati riequilibrare le cose se non vogliono rimanere schiacciati per decenni

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15/02/10

Babe e la TV

LA TELEVISIONE E LA NONVIOLENZA

Mi è capitata quasi casualmente di fare gratuitamente uno spot che acquistato sarebbe costato circa un milione di euro a favore della nonviolenza.
Stimolato dai miei figli che spesso guardano un quiz alla TV con il quale a volte mi diverto con loro a rispondere, mi sono candidato per partecipare al quiz.
Dopo un certo numero di selezioni, è arrivata la registrazione della puntata.
Al momento in cui sono stato eliminato (verso la fine) ho chiesto di fare i canonici saluti.
Ho salutato i miei bambini e poi ho ricordato "tutti i bambini che per la follia degli adulti rischiano di morire nella guerra che si sta preparando" e ho poi invitato "tutti coloro che non sono d'accordo perché venga fatta questa guerra ad appendere ai propri balconi delle bandiere con su scritto PACE" e intanto ho srotolato la bandiera arcobaleno con su scritto PACE che mi ero portato dietro e l'ho appesa davanti alla mia postazione intanto che il regista allargava il campo per riprendere me e la bandiera. In quel momento nello studio si è levata una ovazione con tutto il pubblico che applaudiva e urlava "bravo", i tecnici che venivano a stringermi la mano e le balerine che mi davano delle pacche sulla spalla. A quel punto mi sono allontanato salutando.

La trasmissione della puntata è andata in onda su RAI 1 subito prima del TG della sera dalle 18:45 alle 20 venerdì 17/1/03, il giorno prima della manifestazione internazionale per la pace e contro la guerra.

Il mio "saluto" non è stato tagliato, anzi è stato montato in maniera da farmi risultare ancora più accattivante, dando l'occasione al regista e ai tecnici di esprimere il loro dissenso alla guerra, e probabilmente ha invogliato molte persone a cercare una bandiera da appendere (l'audience della trasmissione che tutte le volte viene ripetuto è di 7 milioni di persone che in genere non sono molto politicizzate). Dopo quella data il numero di bandiere della pace appese ai balconi è letteralmente esploso.
Ho pensato che fosse una buona occasione per parlare far emergere il dissenso alla guerra e far conoscere l'iniziativa delle bandiere di pace che era stata lanciata da un gruppo di associazioni.

Spesso i media ci usano e noi non riusciamo ad usare loro. In questo caso io mi sono fatto usare per poterli in qualche modo usare. Concordo sul fatto che il modello comunicativo televisivo dovrebbe essere pesantemente contestato (senza escludere il fatto che quasi sempre quando il "movimento dei movimenti" prova a comunicare si adegua pedissequamente a tale modello). Ma d'altra parte bisognerebbe anche evitare di essere troppo ingenui. Per esempio quando a volte viene proposto il boicottaggio della TV cosa si pensa di fare? Chi dovrebbe fare questo boicottaggio? Gli impegnati e i coinvolti, quelli che leggono le nostre mailing list o i "nostri" giornali spesso lo fanno già o perché tra riunioni e incontri ben raramente hanno il tempo di guardare la TV o perché in quelle rare occasioni, se non si sceglie di leggere posta elettronica o libri, viene fatta una selezione dei programmi, per cui il boicottaggio significherebbe levare audience a quei programmi che sono più interessanti e che rappresentano quella parte di TV che è come dovrebbe essere tutto il resto. Tutti gli altri, il "popolo bruto", non vengono neppure a sapere del boicottaggio e poi, se anche venissero a saperlo, penserebbero subito che intanto nessuno se ne accorgerebbe, che in fondo hanno anche loro il diritto di rilassarsi un po' la sera o cose del genere.
A ciò si aggiunga che il boicottaggio dovrebbe essere rilevato con sistemi come l'auditel che si basa su un campione ben selezionato di persone non scelte casualmente (quanti ne conoscete delle migliaia di italiani con
l'auditel?) solo tra gli assidui teleutenti, per di più con uno strumento che può dare valori significativi tali da giustificare la selezione del teleutente solo se manovrato da qualcuno veramente convinto dell'importanza del suo ruolo di teleutente campione, che ovviamente ben difficilemente può essere impersonato da un contestatore del sistema. Potete immaginarvi quanto l'auditel sarebbe influenzato da un boicottaggio così concepito. Praticamente il boicottaggio lo farebbero solo quelli che già non vedono la TV e/o non vengono rilevati dall'auditel (anche perché in tal caso gli verrebbe levato il meccanismo) per cui non se ne  accorgerebbe" nessuno.
Quando si intraprende una iniziativa bisognerebbe non solo valutare ciò che noi vorremmo avvenisse (magari immaginando che il resto del mondo sia come noi) ma soprattutto valutare ciò che si ottiene considerando che spesso il mondo è ben diverso da noi.
La parabola evangelica che invita ad essere "come agnelli in mezzo ai lupi" non chiede di diventare lupi feroci, ma neppure di agire come se si fosse nel bel mezzo di un gregge di pecore. Spesso invece si agisce affermando che tutti gli altri sono lupi aspettandosi poi da loro delle azioni da pecore. Bisognerebbe invece saper distinguere i lupi dalle pecore ma anche le pecore dai cani da pastore che in fondo tanto cattivi non sono ma che seguono ordinatamente ciò che il padrone gli dice ma ancora meglio ciò che si aspettando di sentire dal padrone che hanno dentro di loro. E parlare ad ognuno a seconda delle loro possibilità di comprensione e del loro linguaggio.
E tanto per citare una opera realizzata da chi ha potere ma che, se utilizzata correttamente, può essere molto utile anche per chi potere non ne ha, trovo molto interessante vedere nel film "Babe il maialino" cosa fa l'eroe suino (pur considerando che anche lui alla fine esegue quello che gli dice il "padrone" non molto diversamente da quello che in fondo facciamo tutti noi).
Per riuscire a parlare con pecore e cani adatta il suo linguaggio ma alla fine riesce ad ottenere quello che cerca.

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23/10/09

Per mettersi in mezzo (11)

25/7/09
Ieri sera gli americani hanno chiesto al fratello del sindaco, che è l'animatore delle azioni nonviolente del villaggio, che azione intendono fare oggi. Hanno detto che ogni sabato faranno una azione nonviolenta come quella di sabato scorso. Sembra di capire che l'azione sarà dalle case in costruzione. Ricominceranno la costruzione nonostante l'ordine di interruzione consegnato nei giorni scorsi il giorno in cui hanno arrestato Nasser e forse alla fine del summer camp andranno tutti insieme, bambini e adulti, sulla strada dove c'è la scorta dei soldati.
Stamattina ci svegliamo presto per andare sulla collina a controllare l'arrivo dei bambini, per sbaglio avevo sull'orologio l'ora italiana e così mi svegliano 10 minuti prima di partire. Faccio in fretta e non mi lavo, tanto non cambia molto. Lungo la strada chiacchierando ricordo la frase di Primo Levi dove racconta che nel campo di concentramento era fondamentale il lavarsi nonostante tutto per conservare la dignità umana. Salendo si intravedono i cubicoli di mattonacci di cemento che i palestinesi stanno costruendo e Ale è molto contenta che si siano messi a costruire. Mi viene da notare che se invece che in Palestina fossimo in Sicilia forse se la prenderebbe per quei contadini che fanno uno scempio ambientale costruendo casacce abusive. Così ci troviamo a disquisire sul contesto. Ogni cosa ha un significato per il contesto in cui è. Far saltare in aria senza nuocere a persone una struttura militare può essere nonviolenza ma fare un digiuno, come per allontanare un campo nomadi, può essere violento dipende dal contesto. Esprimo a Ale le mie perplessità sul fatto che si pensano di usare i bambini nell'azione perché sarebbero come scudi umani. Ale è scandalizzata e mi chiede di spiegare. Le dico che i bambini non dovrebbero essere carne da macello. Ale non accetta la mia critica, mi chiede come mi permetto di esprimere giudici così violenti dopo una settimana che sono qui. Cerco di spiegarle che il mio non è un giudizio ma una critica. Una mia valutazione sulla base delle mie conoscenze e dei miei valori culturali. Non è un giudizio sulle persone ma una considerazione derivante dalle mie riflessioni sulla base della mia esperienza. Ale non accetta la cosa e comincia a chiedermi sulla base di che conoscenze faccio formazione sull'intervento in aree di conflitto. Le spiego che finora ho sempre lasciato ad altri parlare degli interventi in aree di conflitto e che io parlo sulla base della mia esperienza nella gestione dei conflitti locali. Mi chiede perché sono venuto a fare questa esperienza. Le spiego che in parte è per capire meglio questa realtà, in parte per verificare sul campo pensieri e riflessioni che rimarrebbero solo teoria e in parte perché vorrei riuscire a ridurre il livello di conflitto nel mondo imparando anche modalità efficaci per fare questo. Le chiedo perché lei  è qui e mi dice che è perché ha incontrato il responsabile dell'organizzazione che per la prima volta le ha smosso nel profondo il senso della vita che poi ha vissuto venendo qui. Ma si capisce che mi disprezza per la mia precedente affermazione. E alla fine mi chiede “perché stimi le persone”. E' chiaro che mi sta dicendo che non mi stima e vorrebbe me lo dicessi da solo. A quel punto passano i ragazzi e dopo poco arriva il messaggio che i bambini sono arrivati. Ce ne torniamo verso il villaggio in silenzio. Il suo viso è duro, sprezzante.
Torniamo alla casa e mi faccio una doccia con mezza bottiglia d'acqua. Prima di rivestirmi prendo un mezzo limone e me lo spalmo su tutte le bolle che i pappataci mi hanno fatto le notti prima. Mi prudono in maniera insopportabile e stanno aumentando di dimensione e di fastidio anche dopo un giorno e una notte. Ho provato con le creme apposta ma l'unico sollievo me lo ha dato ieri sera il limone e così oggi faccio una cosa più sistematica. Si vede che il liquido dei pappataci è basico perché l'acido del limone riduce il fastidio e la voglia irrefrenabile di grattarsi.
Ci incamminiamo verso le case in costruzione. Fede, arrivata ieri pomeriggio, racconta che lo scorso anno quando i palestinesi hanno provato a camminare lungo la strada per Tuba ci sono stati pestaggi forsennati da parte dei militari e della polizia e mi dice che ha paura che quest'anno sarebbe peggio. Mi limito a dirle che non ho mai visto morire un uomo e non vorrei doverne vedere uccidere uno. Mi dice che a lei è già capitato ma che bisogna saper affrontare anche questo.
Mi dico di aspettare a vedere cosa succederà. Andiamo dalla scuola dove è l'appuntamento per l'azione. Siamo lì che aspettiamo e arriva un'auto della polizia. Ale gli va incontro e loro fanno riferimento all'incontro con noi il giorno prima e mi fanno anche un complimento dicendole che avevano incontrato due giovani. Chissà se tornato in Italia mi riabituerò alla mia età. Quasi sicuramente la polizia è venuta perché ieri, quando siamo stati fermati, alla domanda se al villaggio avremmo incontrato degli israeliani io ho detto che il sabato prima li avevamo incontrati ma loro hanno capito che li avremmo incontrati oggi, il sabato successivo. Avevano tanta voglia di scoop che ne sono rimasti convinti anche quando ho precisato che era il sabato prima.
Partita la polizia torniamo ad aspettare. Ci dicono di andare dalla casa in costruzione. Non vediamo nessuno ma poi scopriamo che sono dentro a fare il pavimento. Ci mettiamo all'ombra ad fare i “guardoni”. Un po' mi imbarazza rimanere a guardare per ore persone che lavorano pesantemente sotto un sole cocente. Lontano, sul bordo del bosco, c'è un humvee dell'esercito fermo. Sicuramente è lì per controllare cosa sta muovendosi nel villaggio. Ci mettiamo ad aspettare che succeda qualcosa ma tutto è fermo e i muratori vanno avanti a costruire. Una donna raccoglie un po di radici e sterpi. Si è portata dietro una tanichetta di acqua e un bollitore e in pochi minuti prepara un te alla salvia buonissimo. Ne bevo tre bicchieri. Dopo più di un ora l'humvee si muove e scende verso il paese. Ci prepariamo, accendiamo le telecamere e dettiamo luogo data e ora in modo che rimanga registrata all'inizio del video. L'humvee si avvicina … ma prosegue oltre senza considerarci. Ci chiedono di raggiungere la casa in costruzione subito sopra per essere sicuri che non sia andato da loro. Io e Fede la raggiungiamo accompagnati da due bambini. Ci fanno le feste. La casa è un cubicolo di cinque metri per cinque. La bimba che ci accompagna ha spiegato a Fede che adesso si sono trasferiti stabilmente a stare lì. Sono una famiglia di 4 femmine e 6 maschi, la prassi. Sulle stuoie c'è una bimba di 5 mesi coperta da un velo per non farla infastidire dalle mosche.
Fuori è parcheggiato un grosso pickup cabinato, il figlio maggiore ha un cellulare che può funzionare anche da walky talky con il padre ma nella casa non c'è assolutamente niente se non un po' di stuoie e materassini in terra. Le cose stonano, sembrano in contraddizione, ma solo nel mio mondo, non qui. Da quando ci sono gli internazionali molte persone che avevano abbandonato le loro case per le minacce dei coloni sono tornate, e qui ci mettono poco a ripopolare un villaggio a botte di dieci figli per famiglia.
Chiacchierando parlo dei miei figli e la signora, quando dico che ho “solo” due figli mi dice che avrei dovuto almeno avere due maschi e  due femmine. Non so il motivo di quella contabilità ma poco dopo mi chiedono un po' preoccupati se ho due figli per problemi fisici. Li ho rassicurati ma non sono riuscito a giustificare il fatto che ho “solo” due figli, almeno non usando i loro parametri. Dal loro punto di vista ne avrei dovuti fare almeno venti.
Ci offrono delle prugne acerbe e dei cetrioli come spuntino ma prima di pranzo ce ne andiamo. Nel pomeriggio dovremmo tornare a Gerusalemme ed è quasi ora. Quando stiamo tornando alla casa vediamo una jeep dell'esercito venire verso le case ma subito fuori dal villaggio si ferma bloccando il passaggio di una macchina che sopraggiungeva. Ci lanciamo a vedere cosa succede correndo per i campi ma poco dopo i militari fanno passare la macchina e si posteggiano di lato alla strada, scendono e aprono il cofano. Intanto che noi li raggiungiamo tirano fuori una tanica e la versano nel motore, forse acqua per il radiatore. Fede chiede a un militare come va ma quello grugnisce ok. Chiede se hanno problemi e loro dicono di no. Ci mettiamo vicino un po' all'ombra a controllare cosa fanno. La jeep è la 611351, quella che tutte le mattine accompagna i bambini. I bambini della scuola vorrebbero passare ma un adulto cerca di convincerli ad aspettare. Non c'è versi e i bimbi vanno, arrivati alla jeep si lanciano in un “shalom” da veri diplomatici e vanno via dritti. A quel punto anche l'adulto passa. Dopo un po' senza che fosse successo niente la jeep si allontana.
Della marcia con i bambini non se ne sa più niente, qualcuno dice che è rimandata a domani. Tanto tuonò che non piovve. Finalmente possiamo tornare a casa e chiamare il service che ci porterà al primo cambio per Gerusalemme.
Arrivato alla casa di Gerusalemme faccio una doccia bollente per cauterizzare le punture dei pappataci. Stanotte spero di dormire senza prurito.

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23/07/09

Per mettersi in mezzo. (8)

22/7/09
Stamattina vado a prendere i bambini al “gate”. Aspettiamo che i soldati vadano a prendere i bambini che arrivano dai villaggi vicini accompagnati dagli americani e li accompagnino dalla parte del villaggio dove ci siamo noi ad attenderli. Arrivano correndo, facendo un po' di fatica a stare tra i soldati. Sono quattro, due davanti e due dietro e imbracciano il fucile mitragliatore alla Rambo ma hanno una faccia da ragazzini. Stranamente sono tutti e quattro a piedi Di solito ce n'è qualcuno a piedi e altri sulla jeep che li segue. Un pastore ebreo sta pascolando le pecore dentro la colonia. Ad un certo punto, quando i bambini appaiono sulla cresta della collina da svalicare comincia a fare spostare il gregge verso un cancello che dà sulla strada che percorreranno i bambini. Ci allarmiamo un po' e tiriamo fuori le telecamere. Poco prima che i bambini arrivino dal cancello una pecora esce in strada e il pastore esce di corsa e la fa rientrare. Poi i bambini e i soldati passano senza problemi e ci raggiungono. Ele annota il numero della jeep e manda il messaggio di conferma agli americani dall'altra parte: “13 kids arrived”, tutto a posto. Un bambino mi prende per mano, una manina ruvida ruvida, e andiamo assieme fino alla discesa, poi mi fa capire che vuole correre per raggiungere gli altri e ci mettiamo a correre insieme fino alla scuola.
Nel pomeriggio arriva una delegazione di italiani guidati da un personaggio politico abbastanza noto. Scherzando con gli altri li definisco “pacifisti da scrivania” anche se almeno loro stanno venendo a toccare con mano come si vive qui. Stanno facendo un giro di una settimana di conoscenza e solidarietà, toccando varie località della Palestina per conoscere le diverse realtà dove sono presenti attivisti nonviolenti. Sono 13500 euro “all inclusive” compresa una quota di solidarietà per i luoghi visitati. All'entrata del villaggio il bus rompe la coppa dell'olio e i visitatori più giovani salgono a piedi mentre quelli più anziani vengono accompagnati in auto per fare i cinquecento metri che li separa dalla scuola. Gli andiamo incontro e scopro che tra loro c'è anche una ragazza che ho conosciuto ad una riunione scout qualche mese fa. Fa sempre piacere incontrare facce note. Arrivano alla scuola un po' provati. Il nostro riferimento locale ha organizzato una specie di spettacolo un po' da villaggio turistico con danze popolari e caffè. I bambini si chiamano per andare dietro una delle ragazze italiane che mette in mostra un bel tanga a filo sottile. Purtroppo l'amplificazione, che poco prima funzionava, quando deve parlare il sindaco si ammutolisce. Finito lo spettacolino di danza gli italiani si spostano dalla nostra casa a visitare il piccolo “museo della resistenza nonviolenta”, dove ci sono fotografie di avvenimenti passati e qualche cimelio, e per entrare nell'esposizione dei lavori della cooperativa di donne a fare un po' di shopping. Messi tutti in cerchio le domande sono molte. Ale, che con Fabio è venuta apposta da Gerusalemme per incontrare la comitiva del personaggio, cerca di dare delle risposte veritiere ma questo un po' indispettisce chi ha organizzato il tutto che vorrebbe dipingerci come degli eroi in prima linea e non come persone normali che si mettono a disposizione di chi vive un conflitto per aiutarlo ad affrontarlo. Forse preferisce che non pensino che con noi ci potrebbero essere anche i suoi accompagnatori.
Viene proposto di spostare il gruppo per visitare le case in costruzione dove è stato arrestato Nasser,. Non tutti ci vanno, un po' per stanchezza e un po' per paura. In fondo è sempre un luogo del delitto. La responsabile della cooperativa delle donne, che era stata convocata per parlare al gruppo, rimane delusa. Provo a proporre che almeno chi rimane la incontri ma pare che nessuno se la senta di tradurre dall'arabo.
Intanto che i visitatori sono dalle case vado sulla collina per cercare un po' di silenzio. Sinceramente questa visita mi ha dato un po' fastidio, ha rimesso in moto alcuni pensieri sull'inadeguatezza di chi parla di pace e nonviolenza ad affrontare sul serio le cose. Per di più è dal primo giorno che vorrei andare fino in cima alla collina ma mi hanno detto che potrei preoccupare i palestinesi inutilmente. A loro basta vedere uno sconosciuto girare per i campi da solo per pensare che i coloni stanno combinando qualcosa contro di loro. Considero che la presenza dei visitatori dovrebbe evitare la preoccupazione vado un po' in alto sopra il villaggio. Immerso nei miei pensieri e cullato dalla brezza fresca della sera vedo arrivare un humvee dell'esercito che entra nel villaggio e si dirige verso le case in costruzione. Avviso gli altri che un po' si allarmano, non è così comune che i militari entrino nel villaggio. Dall'alto seguo i movimenti del veicolo. Ne arriva un altro dall'alto della montagna. Si incrociano poco sotto le casa in costruzione e si fermano uno di fronte all'altro. Dopo un po' ripartono, quello che scende nel villaggio forse sbaglia strada o forse lo fa apposta per dare fastidio, fa un giro non necessario tra le case ma poi se ne va. La tensione cala.
Torno al villaggio, dato che il bus non è ancora stato riparato vengono chiamati dei service, specie di taxi da 7-10 posti, che porteranno via la delegazione. Anche alcuni di noi si aggiungono per tornare a Gerusalemme e quando escono dal villaggio ci telefonano per avvertirci che c'è una jeep dell'esercito che sembra voler fare un check point volante proprio all'ingresso del villaggio. Andiamo a prendere le telecamere a passo sostenuto andiamo a controllare. E' l'imbrunire, c'è pochissima luce. La jeep è lungo la strada da sola. Si apre una piccola discussione sul da farsi. Alcuni andrebbero a vedere dalla jeep per controllare l'attività del check point. Io penso sia meglio non avvicinarsi perché probabilmente la jeep si è fermata solo perché il bus rotto è fermo poco fuori dalla strada e volevano controllare cosa succedeva. Per di più ormai la luce è talmente poca che non sarebbe possibile riprendere niente nel caso succedesse qualcosa al check point. Miki e Gio decidono di andare lo stesso a vedere. Noi rimaniamo lontani a controllare anche se non potremmo fare assolutamente niente se i militari gli facessero qualcosa. Nel frattempo due bus di linea transitando rallentano e si fermano ben lontani dalla fermata. Hanno visto un bus israeliano fermo all'imbrunire sul bordo della strada vicino ad un villaggio palestinese. L'autista dell'autobus rotto deve andare da loro a rassicurarli. Solidarietà tra colleghi.

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22/07/09

Per mettersi in mezzo. (7)

21/7/09
Ieri sera era prevista una riunione di condivisione tra i due gruppi di volontari che convivono nel villaggio. Uno è il gruppo a cui partecipo io che è formato solo da italiani e l'altro invece è formato da nordamericani.. I due gruppi lavorano coordinati dividendosi i diversi compiti di accompagnamento e scorta. Purtroppo è più facile far fare pace agli altri che fare pace con chi si ha vicino. Tra i due gruppi c'è un po' di tensione e una delle due americane presenti ha condiviso la cena scrivendo per tutto il tempo al computer. Alla riunione degli italiani che è seguita ci siamo detti un po' come stiamo. Qualcuno è stanco, i ragazzi che stanno con i bambini sono un po' delusi perché non si sentono valorizzati, io sono un po' scocciato di sentirmi continuamente dire come dovrei essere vestito e come dovrei comportarmi con gli uomini e con le donne. Ci sto facendo un po' le misure ma è veramente noioso dopo aver “lottato” per una vita per vedermi riconoscere il diritto di essere vestito male come voglio adesso mi trovo costretto da un mare di regole e norme a comportarmi in maniere che trovo assurde per non scandalizzare le persone del luogo.
Alla fine della riunione bisogna decidere i compiti per l'indomani. Mi chiedono se ho voglia di andare in un villaggio a un'ora di cammino dal nostro villaggio per fare da testimoni nel caso la polizia intervenisse presso dei palestinesi che vogliono costruire. Si sa che si deve partire presto ma non si sa quando si ritorna. Io mi preoccupo a stare sotto il sole diretto del deserto per troppe ore. Già la volta scorsa quando sono tornato nel primo pomeriggio dopo la mattina ad accompagnare pastori mi sentivo in ebollizione e la pelle delle mani, nonostante la crema protezione 50, cominciava ad essere arrossata col rischio di farmi stare male per i giorni successivi. Condivido questa mia preoccupazione perché non vorrei creare problemi il giorno dopo a chi è con me a svolgere il mio compito. Mi sembra che Fra sia preoccupato ma Miki insiste perché ci vada io invece di lui. Non so se lo fa perché vuole lasciarmi la possibilità di vivere l'esperienza (anche se non ambisco più di tanto di trovarmi nei casini) o perché non ha voglia di passarsi una giornata a cuocere. Alla fine rimaniamo d'accordo io e Fra: sveglia alle 6 e partenza alle 7.
La notte cambio di nuovo posto, mi metto in un punto un po' ventoso, fuori nello spiazzo con i tappi per le orecchie. Durante il giorno infatti non si sente un cane abbaiare ma durante la notte si scatena il finimondo. Ogni mezz'oretta i cani cominciano ad abbaiare e vanno avanti per parecchio rispondendosi con l'intermezzo saltuario degli asini che ragliano e l'accompagnamento mattutino dei galli e di uno stormo di passeracei che ha pensato bene di fare un condominio di nidi nella soletta della casa sopra la nostra. Alla fine dormo senza punture ma la mattina sono un po' rattrappito dal freddo.
Dopo le lunghe abluzioni mattutine partiamo. Quando arriviamo all'altro villaggio andiamo a cercare Id. Parla bene inglese, l'avevo incontrato all'azione lungo la strada e mi aveva parlato ma pensavo fosse di Ta'yush, l'organizzazione pacifista israeliana. Ci fa sedere e ci offre l'immancabile te. Ci racconta che ha chiesto il nostro intervento perché nel villaggio vogliono costruire undici latrine. Il villaggio è abitato da beduini ed è formato da recinti coperti da tende o da blocchi di cemento di due stanze. Ma non c'è il bagno e neppure la latrina. Per i loro bisogni si allontanano nel deserto. Ma ogni tanto è successo che qualche colono ha inseguito chi cercava di fare i suoi bisogni nella landa desolata. Così vogliono costruire delle latrine tra le case del villaggio ma sono senza autorizzazione. Il villaggio è stato letteralmente circondato da una colonia israeliana che ha le sue reti di recinzione che corrono a meno di 10 metri dalle case dei palestinesi, molto più vicina di quanto sia vicino il villaggio dove è la nostra casa alla colonia vicina.
Le undici latrine verranno costruite in due fasi. Prima i palestinesi faranno i buchi per terra e poi una associazione spagnola che paga anche i lavori di scavo manderà dei volontari che in una settimana costruiranno le latrine. Ma tutto questo senza autorizzazione. Per questo Id ci ha chiamato, vuole che restiamo con loro nel caso venga la polizia ad impedirgli di proseguire lo scavo. Noi dovremo solo fare i testimoni, cosa che probabilmente già servirà ad impedire l'arresto.
Fortunatamente i lavori sono in mezzo alle case per cui la paura del giorno prima era infondata. Non saremmo rimasti al sole per tutto il giorno, anzi poco dopo che ci siamo seduti all'ombra osservando un signore basso e corpulento che maneggia un martello pneumatico arriva il secondo te della giornata.
Dopo una mezz'ora arriva una macchina della polizia della colonia che da dentro si ferma ad osservare. Gli operai continuano a lavorare seminascosti da alcune coperte ma il rumore del compressore e del martello pneumatico è molto alto. A noi ci chiedono di rimanere seduti e defilati anche se subito mi ero messo a filmare in direzione della colonia facendo il vago per arrivare a filmare l'auto della polizia. La polizia poi se ne va lasciando in ansia tutti.
Ogni tanto, quando si avvicinava qualche mezzo sospetto io e Fra tiravamo fuori la videocamera. Sembravamo due pistoleri col le loro amate pistole. Anche Id ci scherza sopra. In effetti queste telecamere per questi palestinesi sono armi potenti, che li fanno sentire sicuri.
Il resto del giorno però passa in una condizione atarassica. Nello stupore di Id non si fa vedere più nessuno, né polizia né militari. Anche volessimo dare una mano ci viene chiesto di rimanere estranei ai lavori per poter essere meglio semplici testimoni. Noi stiamo sotto una tenda a parlare con qualcuno dei figli della famiglia a cui stanno costruendo la latrina (non ne mancano perché sono 8 figlie e 11 figli) e ogni tanto ci portano un te. A pranzo ci offrono un piattone con un imbrogliata di pane arabo e verdure condite con molto olio e pecorino, molto gustoso.
A metà pomeriggio un piccolo momento di tensione perché una jeep e due humvee (grossi jeepponi militare larghi larghi) che in mattinata erano passati senza fermarsi al ritorno si fermano vicino al villaggio e i militari scendono. I palestinesi sono un po' preoccupati anche se ci dicono che per loro è una cosa abituale vedere questi veicoli fermarsi al villaggio vista la loro vicinanza alla colonia. Anche la pattuglia militare però poco dopo riparte senza disturbare il lavoro di scavo che avanza.
Intanto che siamo lì una delle bambine di quattro o cinque anni, una vera bambolina bisquit, si avvicina a me e comincia ad sfiorarmi la testa calva (che da queste parti è una vera rarità riservata solo alle persone molto anziane). Io mi metto a scherzare con lei ed arriviamo quasi a sfiorarci il naso. A quel punto però uno dei suoi fratelli di uno o due anni più grande di lei comincia a sgridarla e a darle anche dei colpi. Io cerco di dirgli di non farlo. Quando poi la bimba si riavvicina a me nuovamente il fratello riparte alla carica per allontanarla. Di nuovo cerco di dirgli di lasciarla stare ma si sente investito di un compito superiore. E la bambina si allontana con un visino che era un enorme punto interrogativo. Non so se alla fine si metterà il velo sperando di trovare un marito che la terrà in casa a lavorare e a fare figli o se invece lascerà la sua casa per emigrare in qualche altro paese in cui essere libera di relazionarsi con persone dell'altro sesso senza essere redarguita, ma sicuramente non stava capendo cosa c'era di male nella sua voglia di affetto e di comunicazione.
A tardo pomeriggio, quando il buco della prima latrina è completato e i beduini si stavano apprestando ad attaccare il secondo noi dobbiamo partire. Ci chiedono di tornare il giorno dopo e magari anche di dormire lì in modo da poter avere qualcuno anche se continuano a scavare la sera. Si vede che ci tengono molto alla presenza internazionale.
Lungo la strada Fra rimane un po' indietro e alla fine, quando gli dico che abbiamo messo 50 minuti mi dice “Un record di velocità. Meno male che avevi paura di non farcela”. In fondo un beduino si era stupito quando gli ho detto che avevo 51 anni dicendomi che me ne aveva dati al massimo 30, bontà sua, anche se in effetti i trentenni di qui sembra che abbiano 50 anni. La vita da queste parti ti consuma presto.

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Per mettersi in mezzo. (5)

19/7/09
Stamattina sveglia alle 5. Un dramma. Dobbiamo andare io e Ale a Tuba per accompagnare i bambini che vanno alla summer school. Li prendiamo al villaggio e andiamo con loro, uno in cima e uno in fondo, fino ad un angolo da cui vediamo i militari che la Knesset, il parlamento israeliano, ha decretato li debbano accompagnare fino alle porte del villaggio. Il motivo è semplice. Nel tratto di strada che porta da Tuba al villaggio i coloni della colonia israeliana vicina spesso li assalivano con bastoni e catene. Per un certo periodo i volontari internazionali li hanno accompagnati ma dopo una volta che i coloni fecero parecchio male a volontari e bambini la Knesset ha stabilito che sarebbero stati i militari israeliani ad accompagnarli. I coloni in questo periodo hanno attaccato anche i militari, ma con un po' più di discrezione.
Siamo arrivati a Tuba e alle 6:10 c'erano già parecchi bambini, qualcuno proveniente da un accampamento lontano qualche chilometro in più. Tre cammelli se ne stanno comodamente assisi nei campi. I bambini sembrano usciti dalla lavanderia, tutti con le loro magliette e pantaloni puliti, le bimbe più grandi con il velo e qualche maglietta in più per evitare il pericolo che un pezzettino di pelle possa spuntare. E invece vengono tutti da accampamenti di tende o da grotte scavate nella roccia calcarea. Mio figlio, nonostante l'acqua corrente e la lavatrice è spesso più sporco.
Ad un certo punto vediamo passare la jeep dei militari e ci avviamo verso il punto dello scambio. I militati per paura di essere aggrediti lontani dal loro mezzo in un tratto che può essere fatto solo a piedi evitano di arrivare al punto che ha stabilito la Knesset. Anche noi ci fermiamo in un punto da cui si vedono i militari per non oltrepassare il percorso sotto giurisdizione dei militari perché i coloni la considererebbero una provocazione e così i bambini devono fare un centinaio di metri da soli a rischio delle aggressioni dei coloni sotto il nostro sguardo che, per quanto vigile, è solo uno sguardo. Arrivati dai militari i bambini vanno fino al cancello vicino al villaggio dove ci saranno altri volontari ad accoglierli. E questo ogni mattina che c'è scuola o c'è il summer camp. E all'ora di pranzo dovremo fare il contrario. Finito l'impegno con i bambini passiamo all'accompagnamento dei pastori. Sono le 7 e mezza e la giornata è già cominciata da un po'. I pastori sono già partiti da un pezzo, prima che faccia troppo caldo. Bisogna andare a cercarli tra le colline. Nel posto solito non ci sono, continuiamo a girare per le colline finché ad un certo punto sentiamo un belato. Mi avvicino e vedo il pastore che si sbraccia. Devo rispondere subito con un ampio saluto per rassicurarlo che non sono un colono ma un amico. Quando li raggiungiamo troviamo i due pastori, uno giovane e un anziano che di solito non porta mai le bestie al pascolo. Il giovane parla inglese e riesco a parlare un po' con lui. L'anziano ha la stessa voglia di parlarmi e non desiste a chiedermi le cose anche dopo che gli dico “Ana ma teke arabi”. Come io non so l'arabo lui sa solo quello ma cerca in ogni modo di parlarmi. Purtroppo alla mia età non riuscirò più ad impararlo ma in questi giorni mi viene una voglia matta di farlo. Le lingue bisogna impararle da giovani, quante più possibili.
Giriamo per qualche ora tra le colline. E così capisco la storia di Davide e Golia. Da queste parti dove i cani sono animali impuri, per guidare le greggi si prendono pietre da terra che mai ne mancano e si tirano vicino alla bestie per distrarle dal continuare a mangiare le piante. I bambini pastori sono dei veri campioni di lancio della pietra, che sia per gestire gli animali o per centrare gli humvee dell'esercito israeliano.
Le pecore e le capre si mangiano questi cardi e cespugli pieni di spine come se fosse lattughina tenera. Le fibre non gli mancano. Tornati a casa berranno l'acqua che i pastori tirano dalla cisterna con meno parsimonia che per sé.
Ma prima di tornare a casa, sulla via del ritorno, mi attardo un po' e scendendo un costone per attraversare un huadi, secco come sempre, sento un rumore di pietre dietro di me.
Mi volto e vedo due persone correre a salti incontro a me. Quando vedono che mi sono voltato si mettono a urlare sbracciandosi come fosse un gioco notturno di paura. Ma sono le 11 del mattino e il sole spacca le pietre a 35 gradi all'ombra e nei giochi notturni non c'è qualcuno che tira pietroni da mezzo chilo in direzione degli avversari..
Urlo ad Ale “Arrivano”. Lei sulle prime pensa sia uno dei miei scherzi e gli viene in mente il pizzaiolo di casa sua quando avverte per le pizze in ritardo. Ma non sono due pizze, sono due coloni che vogliono minacciare i pastori palestinesi. Pochi secondi per decidere cosa fare. Ale mi urla “Scappa!” ma io osservo che non hanno né armi né bastoni in mano. Decido di fermarmi per proteggere la fuga di Ale e dei pastori. Quando mi arriva vicino il primo chi chiedo “What's the problem?” con la mani basse aperte in avanti. Arriva urlando e quando il suo viso è a non più di venti centimetri dal mio si ferma. Lo guardo negli occhi, dei bellissimi occhi celesti bordati di blu. Ha un fazzoletto come i black block ma bianco che gli copre il volto e lascia intravedere quel suo punto così debole che gli impedisce di ignorare la mia umanità. Avrà tra i 15 e i 18 anni, un po' come i miei studenti, un po' cazzone e un po' sbruffone come loro, alla ricerca di se stesso. Rimane muto mentre l'altro, un po' attardato urla ancora un po' e poi si zittisce anche lui. Anche l'altro ha il volto coperto ma di nero, proprio come i black block di G8ttiana memoria. Il “bianco” mi fa segno di andare via, quasi un invito, un consiglio, in ebraico e con le mani. Io mi volto e senza correre mi avvio continuando la mia strada. Non so cosa stanno facendo, non so se stanno raccogliendo delle pietre per lanciarmele nella schiena o se invece se ne stanno andando via ma non mi volto, non voglio fargli credere che per il loro intervento ho smesso di fare quello che facevo e spero che il “sia fatta la tua volontà” che ho pregato per santificare la festa corrisponda alla mia volontà.
I pastori e Ale sono scappati avanti con il gregge, poi lei e il pastore giovane si sono messi a riprendere la scena da lontano. Quando li raggiungo mi chiedono come sto. Tutto bene, e continuiamo a camminare fino a Tuba. Il pastore giovane guarda Ale e ricordando per la prima volta il mio nome le dice in arabo “Carlo è forte”. 1000 punti da parte.
Dobbiamo aspettare che i bambini ritornino dal summer camp così per non cuocere al sole la figlia del pastore anziano, occhi chiari e sorriso bellissimo, ci invita sotto una tettoia di tela che fa da soggiorno e da camera da letto. Il padre viene dopo un po' e lei le sistema un piccolo materasso. Ale fa vedere il video dell'aggressione dei coloni a tutti e poco dopo ci offrono una aranciata fatta con l'acqua del pozzo e dello sciroppo. Forse sto rischiano più di prima coi coloni ma la bevo tutta. Ale tituba ma quando arrivano col te alla salvia la invitano a bere prima l'aranciata, non può rifiutarsi. Prima di andare verso l'appuntamento con i bambini passiamo dalla famiglia del pastore giovane. Col figlio che parla inglese è più facile chiacchierare. Vivono in una grotta scavata in 40 giorni dal nonno nel 1967, poco prima della guerra. Venivano da un'altra parte della Palestina e hanno avuto la sfortuna di finire dove qualche anno dopo avrebbero costruito la colonia. Ci offrono uno spuntino, pane, pomodori, cetrioli sottaceto e un formaggio secco che a vederlo sembra gesso da ginnasti. Ale suppone che per loro non abbiano molto di più da mangiare e mi limito a pizzicare qualcosa per non offenderli ma loro insistono. Mi spiegano che vendono il formaggio a 10 euro al chilo e me ne offrono un pezzettino da portare via.
Alla fine decidiamo di andare verso l'appuntamento dei bambini. Aspettiamo che ci diano il segnale che i militari sono arrivati a prelevarli prima di avvicinarci. Al quarto richiamo finalmente i militari arrivano. Noi gli andiamo incontro e scopriamo che a fianco del percorso c'è un colono che cura le viti. Questa volta ha altro da fare e i bambini corrono veloci verso casa. Finalmente alle 13 siamo sulla via di casa cotti dal sole.
La sera prima di cena Fra e Miki che stavano andando a Tuba per dormire nella grotta dei pastori che hanno paura di attacchi notturni incontrano i coloni che li inseguono. Loro fuggono nella valle e ci chiamano per farsi dare un aiuto. Io e Ele corriamo in cima alla collina per dargli indicazioni sulla posizione dei coloni. Loro incontrano un pastore sull'asino che si è allontanato dalla strada quando ha visto il pickup dei coloni. Alla fine continuano alla volta di Tuba e noi torniamo al villaggio. Lungo la strada un contadino sul trattore ci invita a tornare con lui e, arrivati, un bambino scalzo ci offre un biscotto per uno. Alla sera siamo invitati a cena a casa del punto di riferimento del villaggio per la azioni nonviolente. Penso che stanotte dormirò.

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Per mettersi in mezzo. (2)

16/7/09
Ieri sera siamo andati in centro. Faceva un po' effetto aspettare il nostro kebab (che qui si chiama shawarma) a fianco di quattro baldi giovani che imbracciavano una mitraglietta. Forse coloni o più semplicemente soldati in licenza che hanno l'obbligo di avere sempre con se la loro arma a scanso di furti o più probabilmente per dare un senso che l'esercito è sempre pronto anche se i nemici attaccheranno di sorpresa come nella guerra del Kippur. Sembravano tranquilli anche se un po' impacciati nel mangiare il loro panino districandosi tra tracolla e canna ma mi domandavo se tutti si erano ricordati di mettere la sicura.
Siamo ritornati abbastanza tardi. Ale e Fabio erano cotti e si addormentavano sul bus a rischio di farci saltare la fermata giusta essendo gli unici a conoscerla. Ieri sono arrivati tardi alla casa perché avevano saputo all'ultimo che oggi ci sarà una ispezione della Unione Europea. Il progetto è in parte finanziato dalla UE e ogni tanto ci sono dei controlli. Così ieri si sono dati da fare per risistemare un po' di cose e di conti.
Oggi invece ci siamo concessi un giro esplorativo per cominciare a capire un po' meglio questa realtà. Prima un giro per il suq e poi, dopo aver mangiato una varietà di felafel e salsette di ceci, un giro per i tre luoghi sacri: Spianata delle Moschee, Muro del Pianto e Basilica del Sacro Sepolcro.
La prima riflessione è che in questo luogo l'attaccamento al proprio credo fa comportare in maniere aggressive.

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24/11/08

Che fare?

Sempre più spesso ci sono persone che si domandano che fare per uscire dal vortice che sta facendo sprofondare la convivenza civile e sociale.
Votare non ha più senso perché il consenso viene manipolato e stravolto per mantenere il potere da chi lo detiene, l'azione volontaria viene sfruttata per i fini più diversi, spesso di lucro, l'azione virtuale rimane inefficace.
Il fatto è che penso che le popolazioni necessitino di livelli di attivazione molto significativi. Questi possono essere raggiunti per il dolore sofferto (come nel caso delle guerre) o per una pratica del conflitto che deriva da una capacità critica. Non auspicando la prima ipotesi che normalmente richiede un costo veramente alto, l'altra alternativa di trasformazione e miglioramento risulta la migliore. Ma se a questa si oppone la sterilizzazione della capacità critica l'unica possibilità che rimane è drammaticamente la prima.
Proprio per questo, se si vuole evitare la sofferenza dell'esplosione violenta dei conflitti, bisogna abituarsi a praticare una capacità critica e ad affrontare i conseguenti conflitti, imparando possibilmente a gestirli e traformarli in maniera nonviolenta, che non vuole dire semplicemente simbolica.
La sfida è tra accettare che certi pazzi che pensano di poter sfruttare sempre di più gli altri continuino ad anestetizzare la capacità critica altrui e nostra impedendoci di ribellarci fino a quando la sofferenza estrema farà esplodere violentemente il conflitto sociale e metterà a repentaglio la vita di tutti oppure cominciare ad agire per recuperare la capacità critica delle generazioni, riaddestrandoli anche al conflitto interpersonale e sociale. Per fare questo però bisogna risvegliare noi stessi dal torpore delle coscienze in cui siamo immersi ed aiutare gli altri a fare altrettanto sia sensibilizzandoli ma soprattutto mettendo in ballo la vita stessa nostra e degli avversari, non tanto insidiando la loro incolumità quanto coinvolgendoli anche emotivamente e fisicamente nella presa di coscienza delle conseguenze dei loro atti. Questo può avvenire tramite la cosiddetta "azione diretta", una pratica politica che viene messa in opera con strumenti anche molto diversi tra loro (da quelli violenti a quelli nonviolenti) e di cui però si sta perdendo la conoscenza.
L'alternativa è lo scivolare verso un imbarbarimento dei disequilibri che si fermerà solo quando la sofferenza delle popolazioni le spingerà a ribellarsi, cosa che di solito è avvenuto in maniera violenta e cruenta.
Non basta più mandare email o firmare petizioni e perfino fare scioperi di opinione o partecipare a cortei. Sono metafore conflittuali che hanno senso solo nella misura in cui le parti in gioco hanno coscienza dell'importanza di limitare sul piano simbolico lo scontro per fare in modo che il conflitto non abbia conseguenza nefaste per entrambe i contendenti. Ma in una società in cui l'ignoranza politica delle parti in gioco fa perdere la coscienza dell'importanza dei conflitti simbolici diventa del tutto superfluo rimanere su tale livello quando manifestazioni di centinaia di migliaia di persone vengono ignorate perché banalmente non creano nessun problema, neppure alla semplice possibilità di spostamento dell'avversario o gli scioperi non intaccano di un pelo il suo portafoglio.
"Azione diretta" non è solo il terrorismo o lo violenza dei black block, ma può essere il blocco dei treni che portano armi o anche solo il blocco delle sfilate di auto blu ad inaugurazioni o cerimonie.
Se i potenti pensano di poter ignorare gli altri uomini saranno gli altri uomini che dovranno farsi prendere in considerazione e se non si riuscirà a fare ciò con strumenti efficaci ma incruenti basterà aspettare per vedere scorrere il sangue. Cossiga, il più squallido rappresentante del potere, docet.

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14/11/08

Lotta di classe

Ma in uno stato in cui si riconosce l'abuso da parte dello stato stesso e allo stesso tempo non lo si persegue la situazione è peggiore che in uno stato in cui l'abuso viene nascosto (magari con vergogna o anche solo perché ritenuto inaccettabile).
L'arroganza del potere che dice alle persone "io faccio quello che voglio di voi" è una sfida bella e buona che se non trova una risposta diventa una conferma.
Ma la risposta dubito che ci sarà.
Dopo tanti anni abbiamo un governo che ha messo in atto la lotta di classe. Le classi alte sono partite all'attacco delle classi basse. Non avendo la forza dei numeri usano la forza del potere ed economica. Da centinaia di anni i ricchi hanno contrastato con un po' di vergogna l'attacco dei poveri che chiedevano giustizia. Adesso lo scenario si è ribaltato. Senza più alcun richiamo etico i ricchi e forti stanno cercando di ripristinare il loro dominio assoluto sui poveri e deboli.
E non trovando alcun tipo di risposta procedono nella direzione del soggiogamento più completo dei loro sudditi e a breve schiavi.
La nonviolenza potrebbe impedirglielo, ma per far questo servirebbe una coscienza che non c'è.

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16/05/08

Passare all'azione

Mi domando cosa ancora dovremo aspettare, noi persone che abbiamo a cuore i diritti e la giustizia, prima di passare all'azione.
E quando parlo di passare all'azione non mi riferisco all'azione politica o all'azione culturale, ma mi riferisco all'azione diretta, quella nonviolenta. Sempre che si abbia chiara la differenza tra le prime e la seconda.

I razzisti e gli sfruttatori, sentendosi anche le mani slegate dalla tornata politica nazi-fascista che sta avanzando non aspettano a passare all'azione diretta, bruciano campi nomadi, ammazzano ragazzi col codino, fanno ronde coi bastoni. Noi continuiamo a parlare di come fare, facciamo analisi, ci indignamo. Ma poi facciamo banchetti, petizioni, firmiamo appelli per chiedere ad altri di agire, ma non agiamo. Aspettiamo che siano le istituzioni a dare delle risposte, e queste, al contrario, con la loro impotenza o la loro connivenza, fanno sentire quelli sempre più con le mani slegate.

Sarà che De André cantava
"Lottavano così come si gioca
i cuccioli del maggio, era normale,
loro avevano il tempo anche per la galera
ad aspettarli fuori rimaneva
la stessa rabbia la stessa primavera..."
ma noi siamo senza più "cuccioli" che hanno il tempo anche per la galera. Li abbiamo lasciati fagocitare dalle curve ultras per cercare uno scontro che in famiglia non c'è più, li abbiamo lasciati educare dalla tv di Sgarbi e del Grande Fratello "che oggi sono stanco e non ho voglia di problemi", li abbiamo lasciati dormire nelle loro stanzette "meglio lì che per strada".
Oltre una certa età si riescono a organizzare conferenze e partiti ma per l'azione diretta serve energia, serve intraprendenza.

Così ci siamo fatti terra bruciata dietro, e continuiamo a parlare di come fare, facciamo analisi, ci indignamo. E poi facciamo banchetti, petizioni, firmiamo appelli per chiedere ad altri di agire, ma non agiamo.
Per un po' ho sperato che i giovani non venissero alle nostre riunioni perché avevano le loro, e mi sono messo a cercarli, ma non li ho trovati, se non rare perle. Non penso che si nascondano, lo spererei.
Li abbiamo abbandonati nella loro precarietà che li incattivisce e li rende cinici senza riuscire ad essere credibili.

Ma se non ci sono i giovani ad agire (o se ci sono, sono a rompere e spaccare) chi altri potrà agire?
Come i lillipuziani di piazza Manin che alzavano le mani sperando che la polizia li difendesse dal black block ci arrendiamo?

La vedo bigia!

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28/04/08

Ecologia, nonviolenza e femminismo?

Nelle settimane scorse si è messo in moto un processo che ha portato alla formazione di una "RETE di donne e uomini per l'ECOLOGIA, il FEMMINISMO, la NONVIOLENZA".

Con tutto il rispetto per le femministe, le prime due discriminanti della rete mi trovano affine, direi quasi che mi attirano, ma la terza mi trova parecchio distante. Non sono e non intendo diventare femminista come non sono e non intendo diventare maschilista o calvista o occhio celestista, anche se nelle categorie dei maschi, dei calvi e dei cerulei io rientri a tutti gli effetti perché non trovo corretto discriminare, cioé distinguere, trattare diversamente, le persone sulla base delle loro caratteristiche fisiche. Lascio a voi definire la discriminazione basata su aspetti fisici. Con questa frase mi attirerò sicuramente le ire e l'indignazione di molti, ma non vorrei che questa mia affermazione venisse presa come una provocazione o peggio come una battuta. Non voglio negare le differenze, non voglio negare che nella nostra società vi siano discriminazioni sulla base delle caratteristiche fisiche, siano esser il colore della pelle o il sesso, ma anzi proprio per questo vorrei evitare di confermare queste anomalie pensando di contrastarle. Mi risulta ovvio che in questo frangente culturale la difesa dei diritti delle donne è ancora, e forse ancora di più, una questione cruciale, ma, come esempio per farmi capire, trovo aberrante che i Comuni, anche dietro spinte femministe, attuino"politiche di sostegno alle madri" invece che "politiche di sostegno ai genitori" principalmente perché trovo ghettizzante dare anche nel linguaggio per scontato che sia la donna ad essere aiutata, confermando implicitamente il pensiero che la cura dei figli è esclusiva competenza delle donne. E quando l'ho fatto notare ad agguerrite femministe neppure si rendevano conto che difendendo i diritti delle donne in quella maniera invece che difendendo i diritti di quelle donne in qualità di genitori realizzavano ciò contro cui loro lottavano. Se penso che nonviolenza ed ecologismo sono due facce delle stessa medaglia, non altrettanto penso riguardo alle prime due e il femminismo, mi limito a pensare alle diversità che all'interno della nonviolenza ci sono sempre state sul tema dell'aborto. Può esserci un femminismo nonviolento come può esserci una anarchia nonviolenta, ma dare per scontata la contiguità mi pare foriero di difficoltà notevoli in futuro. Vado a prendere e portare i miei figli, faccio da mangiare alla famiglia, mi prendo cura della casa regolarmente ma non sono femminista, come pure vado a lavorare, col mio stipendio contribuisco a mantenere la famiglia, guido la macchina ma non sono maschilista e mi chiedo se anche questa volta mi troverò ad essere un border line, né carne né pesce, mezzo adepto e mezzo rinnegato perché non aderisco a tutte le etichette in cui vengono ristretti i processi politici da chi lancia gli appelli? Mi dispiacerebbe molto anche perché tutto ciò che è scritto nel documento di lancio della Rete lo condivido pienamente, anche l'intenzione di essere contro il maschilismo. :-)

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18/04/08

Insulti nonviolenti

Uno dei più attivi propugnatori della nonviolenza, il "Centro di ricerca per la pace" di Viterbo, nel suo bollettino telematico quasi quotidiano ha apostrofato in un suo scritto (http://lists.peacelink.it/nonviolenza/2008/04/msg00030.html) coloro che pur richiamandosi alla nonviolenza hanno continuato a suggerire di votare per i partiti della sinistra nonostante questi avessero in passato anche votato a favore del finanziamento delle missioni militari all'estero, arrivando a prendersela con chi.
Devo confessare che la cosa mi ha disturbato, e non poco. Non tanto per i contenuti, che posso in buona parte condividere, quanto soprattuto per i modi, che ritengo decisamente poco nonviolenti.
E dico poco nonviolenti non tanto per gli insulti coloriti di cui è infarcito il messaggio (sono abbastanza grande da non turbarmi troppo a sentire apostrofare altre persone con parole come razzista, prostituto, presuntuoso, imbecille, mascalzone, laido, buffone per quanto le trovi decisamente poco nonviolente) quanto per il fatto che questi insulti sono rivolti anche a persone di cui non si condivide l'operato ma che, almeno in teoria, condividono gli scopi politici dichiarati da Sini. Figuriamoci cosa poteva essere detto dei nemici (pardon avversari).
Questo linguaggio nei confronti di chi fino a pochi giorni prima era compagno di strada ma che ha fatto scelte diverse sul piano politico sono il migliore viatico al deserto e alla distruzione. Ciò che ancora più mi ha disturbato è che queste parole siano venute da una persona che per molti aspetti è un punto di riferimento sulla nonviolenza, una persona che fino a non molto tempo fa sapeva dire con molta dignità anche al più duro avversario le cose senza mai cadere nell'offesa ma rimanendo sempre sul piano dei fatti.
Non so se anche io rientro tra i destinatari degli insulti di Sini, visto che mi interesso di formazione alla pace e alla nonviolenza e in alcuni casi anche dalla cattedra, ma non è per fatto personale che parlo. A me interessa che dopo essere tutti insieme riusciti a cancellare ciò che restava di una rappresentanza istituzionale, invece che tirare fendenti agli altri altrettanto moribondi si cerchi insieme non tanto di capire gli errori degli altri, ma i propri errori, cercando, ognuno con le proprie convinzioni, di trovare delle strategie condivisibili dai più per recuperare una rappresentanza politica non fatta tanto di persone ma di credibilità.
Potrei anche io elencare un necrologio di attività politiche e di "vittorie" sul campo conquistate quando altri erano a disquisire sul sesso degli angeli, ma non penso sia necessario. Serve invece che chiunque abbia qualcosa da dire possa sentirsi libero di farlo senza rischiare le reprimenda e gli insulti di noi "vecchie cariatidi della nonviolenza". C'è nessuno che si è accorto che contrariamente a tutti gli anni passati i voti alla Camera sono ancora più reazionari e fascisti di quelli del Senato? Vogliamo continuare a parlare tra di noi vecchi babbioni dicendoci quanto siamo bravi e quanto sono coglioni tutti gli altri o vogliamo provare a riprendere a parlare con i giovani, sempre meno presenti alle varie manifestazioni, assemblee ma anche azioni dei nonviolenti? Anche per questo mi dedico alla formazione in tutte le possibili forme.
Mi farebbe piacere se democraticamente e nonviolentemente queste righe finissero anche nel notevole flusso di informazioni veicolate dal "Centro di ricerca per la pace" per cercare di riportare la dialettica almeno all'interno degli amici della nonviolenza a livelli più confacenti ai suoi principi. In ogni caso spero che altri si attivino per recuperare una capacità di collaborazione tra diversi che il messaggio di Sini, secondo me, mette pesantemente in dubbio.

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15/03/08

Nonviolenza e conflitto

La nonviolenza non ha paura del conflitto, anzi, in molte situazioni lo "crea", soprattutto in quelle situazioni in cui la tranquillità cerca di nasconderlo, perché spesso i conflitti ci sono ma sono nascosti. La nonviolenza "crea" conflitto nel senso che lo rende evidente, lo fa diventare una questione con cui tutti devono avere a che fare, sia quelli che preferiscono non vederlo, sia quelli che lo nascondono. Il nonviolento è necessariamente un rompiscatole, perché rompe le scatole non solo a chi fa direttamente la violenza, ma anche alla stragrande maggioranza che la accetta e fa finta di non vederla. Quindi scegliere di essere nonviolenti, e non limitarsi semplicemente a non essere violenti, significa andare ad impelagarsi in un bel po' di problemi, anche rischiando di perdere quella tranquillità che uno potrebbe avere rientrando tra quelli che la violenza altrui "non la vedono". Sicuramente la nonviolenza affronta il conflitto e in alcune situazioni lo evidenzia, lo fa esplodere con lo scopo di cercare una soluzione che può essere sia una ri/soluzione sia una dis/soluzione. Il conflitto ha varie possibilità di evolvere e purtroppo, molte volte, proprio per il fatto che viene nascosto, continua. Invece è proprio dall’affrontarlo, dal farlo maturare, che si può riuscire a farlo emergere e possibilmente farlo finire.
Il conflitto, quando viene affrontato, può essere risolto trovando una soluzione valida per tutti ma altre volte può semplicemente dissolversi perché il motivo del confitto non era sostanziale, spesso era solo motivato da una incomprensione o da un fraintendimento, e quindi, facendolo emergere, è possibile semplicemente superarlo riconoscendone l'infondatezza e trasformandolo in una occasione di dialogo.
In ogni caso la nonviolenza ha a che fare con il conflitto, anche se non per questo deve portare necessariamente ad un vita di conflitto. Spesso si pensa che non affrontando i conflitti si vive più tranquilli ignorando le tensioni che i conflitti generano anche a chi nel conflitto ha una posizione predominante. La nonviolenza permette anche una vita in cui dal conflitto si esce positivamente recuperando le situazioni di tensione e facendole diventare situazioni positiva. Affrontare il conflitto in maniera nonviolenta può migliorare anche la propria qualità di vita, assieme a quella altrui. Ma per fare emergere i conflitti spesso è necessario arrivare all’azione. Di nuovo arriviamo al dualismo tra pensiero ed azione, tra teoria e pratica. Non ci si può solamente limitare a discutere, diffondere informazione, diffondere conoscenza, è necessario in molte situazioni passare all’azione. È vero che la sensibilizzazione, la divulgazione e l’informazione fanno crescere la sensibilità e sono molto importanti, anche all’interno delle iniziative nonviolente, proprio per aumentare la capacità dell’ambiente di risolvere il conflitto, ma in molti casi non è sufficiente ciò che le singole persone che si sono sensibilizzate faranno di conseguenza. Il fatto che persone che hanno recepito la sensibilizzazione agiscano di conseguenza è positivo ed auspicabile ed utile ad evitare conflitti futuri, ma, soprattutto nelle situazioni di conflitto evidente, spesso non è sufficiente. È quindi necessario arrivare ad un azione che sia concreta, specifica e mirata al conflitto stesso. Questo è il punto più delicato perché la nostra educazione da centinaia di anni se non da millenni, prevede che l’ azione nel conflitto è necessariamente un'azione di tipo violento tanto che spesso il termine conflitto viene equiparato a quello di violenza.

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Nonviolenza e legalità

L'azione diretta nonviolenta, di per sé, non rispetta necessariamente la legalità. È un' azione rigorosamente obbediente, nel senso che obbedisce, per esempio, al principio di giustizia, alla propria coscienza, ma le leggi umane, come troppe volte si può constatare, non sono intrinsecamente giuste. Per cui l’azione nonviolenta è obbediente rispetto alla base del nostro credere, ma può essere disobbediente alle leggi umane. Tra chi contesta i "disobbedienti" affermando che disobbedire alle leggi è inaccettabile ci sono molti che spesso in auto superano i limiti di velocità o evadono normalmente le tasse "perché se dovessimo dar retta a tutte le leggi non si potrebbe campare". Se uno è così rigorosamente fautore della legalità lo dovrebbe essere sempre, altrimenti è pura ipocrisia. L’illegalità è una cosa che può rientrare benissimo nell’azione nonviolenta e soprattutto quanto più la legge è ingiusta quanto più disobbediente dovrebbe essere la nonviolenza.D'altra parte, l’essere per forza disobbedienti è un aspetto infantile legato al pensare di affermare la propria esistenza solo disobbedendo al potere che si ha davanti, ma questo significa che ci si sta relazionando al potere in una situazione di sudditanza, far dipendere la propria esistenza da una negazione invece che da una affermazione, come il bambino che deve affermare la propria identità dissociandola da quella dei genitori. Se questo è un meccanismo naturale nel bambino che sta cominciando un proprio cammino di identità, a livello adulto diventa patologico. Una persona matura è perché è, non perché riesce a dimostrare ad un potere più forte di lui che non lo sta soggiogando.Per cui, la nonviolenza può anche essere disobbediente, illegale ma non lo deve essere per forza.

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Formazione alla nonviolenza

Un aspetto importante è che l’azione nonviolenta deve essere preparata: ci vuole un'educazione che permetta di saper agire anche in situazioni di tensione, di paura, in situazioni difficili anche di tipo relazionale e deve essere un' azione efficace, deve far progredire la situazione verso la soluzione del conflitto, altrimenti è meglio evitare di agire del tutto.
Purtroppo raramente si fa una verifica delle azioni fatte, su quello che hanno ottenuto positivamente e negativamente. Si dà per scontato che le azioni fatte sono le migliori che potevano essere fatte e quindi non si va a verificare se l'azione è stata almeno parzialmente positiva o se invece non è stata perfino negativa, creando, ad esempio, situazioni di incomprensione che prima non c’erano. Molte volte vengono definite nonviolente delle azioni che sono prettamente delle azioni personali, che non sono fatte per agire nel conflitto, ma servono fondamentalmente per placare l'ansia e la paura di qualcuno. Per cui sono delle azioni che sono autoreferenziali, non influiscono sul conflitto se non marginalmente e da un punto di vista inibiscono la nostra giusta aggressività, ci autogiustificano. Un azione nonviolenta dovrebbe invece agire realmente nel conflitto, essere efficace rispetto al conflitto.

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I vantaggi dell'azione nonviolenta

La nonviolenza richiede la capacità d’agire direttamente all’interno del conflitto. Fin da piccoli noi veniamo educati, dai nostri genitori, dalla società, dalle relazioni che abbiamo, ad affrontare il conflitto in una maniera violenta acquisendo a poco a poco un addestramento sopraffino. Ma veramente pochi ricevono un addestramento all'azione che non sia violenta per agire nel conflitto. È un tipo di azione che, probabilmente, se la imparassimo fin da piccoli, sarebbe ancora più facile da imparare che l’azione violenta perché non è poi così facile agire nel conflitto violentemente. Come la violenza si impara poco a poco (e la nostra società è bravissima ad insegnarcelo), anche la nonviolenza richiede del tempo per essere imparata, e come la violenza si impara praticandola, anche la nonviolenza si impara dall'esperienza. Ma come molte volte non si riescono a risolvere i conflitti con la violenza, anche la nonviolenza può non riuscire nella soluzione del conflitto. D’altra parte, se si è addestrati, con la nonviolenza si può pensare di risolvere il conflitto non sconfiggendo l’altro ma dando una soluzione valida per tutti, e si riesce ad eliminare il problema perché si leva la motivazione all’altro di cercare di riaccendere il conflitto. Al contrario, dato che la modalità violenta considera il conflitto "risolto" quando uno schiaccia l’altro, ci sarà qualcuno che cercherà, proprio per gli aspetti di aggressività naturale, di recuperare e ribaltare la propria posizione di inferiorità e quindi il conflitto non sarà risolto ma resterà solo latente fino a che, prima o poi, riesploderà. L'unica maniera per "risolvere" violentemente il conflitto è eliminare fisicamente l'altro, il diretto interessato e tutti coloro che sono in relazione con lui. Come può succedere che con la nonviolenza non si riesce a risolvere il conflitto, altrettanto facilmente, se non più facilmente, con la violenza non si riesce a risolvere i conflitti. Se, con la nonviolenza, si riesce a risolvere dei conflitti è di solito in una maniera stabile, mentre invece il conflitto "risolto" in maniera violenta è apparentemente risolto solo in modo instabile.
D'altra parte nella gestione nonviolenta dei conflitti il livello di sofferenza per tutte le parti in causa è decisamente minore rispetto ad una gestione violenta. E se poi non si riesce a trovare una soluzione definitiva e completa almeno si sono ridotte le sofferenze. Al contrario con un approccio violento al conflitto in molti casi perfino chi vince subisce tali sofferenze da far preferire di non aver mai affrontato lo scontro. All'invasione da parte delle truppe sovietiche in Ungheria si rispose con la violenza e in Cecoslovacchia con la nonviolenza. In entrambe i casi l'occupazione rimase ma in Cecoslovacchia morirono poche decine di persone contro le 56000 morte in Ungheria. In Palestina la prima Intifada, in cui il massimo della violenza della resistenza erano pietre lanciate da ragazzini, era quasi riuscita ad ottenere una buona parte delle richieste palestinesi ma la provocazione di Sharon che attraversò la Spianata delle Moschee riuscì a far scatenare una reazione violenta che ha dato modo agli israeliani di schiacciare negli anni successivi le rivendicazioni palestinesi.
Si può quindi capire che la nonviolenza conviene anche solo da un punto di vista pragmatico, non necessariamente per una scelta etica o morale, nel senso che è una modalità di gestione del conflitto che risolve più problemi a un costo inferiore per cui non sembra ragionevole continuare ad usare la modalità violenta; il problema è che quella violenta è una modalità che ormai noi abbiamo acquisito e che fa parte di noi, mentre invece quella nonviolenta normalmente non la acquisiamo durante la nostra vita, soprattutto nelle società del nord del mondo, visto che in altre società un approccio nonviolento è più connaturato alla cultura locale. A questo punto per trovare dei percorsi nonviolenti per risolvere i conflitti bisogna lavorare su di noi, come singoli e come collettività, recuperando quello che non abbiamo imparato e tralasciando, disimparando, quello che abbiamo imparato nel campo della violenza. Questo comporta del tempo, del lavoro su noi stessi e sugli altri, proprio perché non basta affrontare la nonviolenza da un punto di vista puramente personale. Per arrivare a compiere delle azioni nonviolente bisogna riuscire ad avere una capacità di autocontrollo che non è semplicemente reprimersi, ma sapersi controllare, saper limitare la propria risposta aggressiva in alcune situazioni, ma in altre situazioni invece stimolarla, per esempio per superare situazioni di depressione, di paura o di pigrizia anche indotte dal contesto, proprio per arrivare ad agire ed affrontare realmente il conflitto.

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Violento o nonviolento?

Il mio modo di vedere la nonviolenza non è un qualcosa di ideologico, parte da dei valori ma è qualcosa che matura di giorno in giorno, è qualcosa con cui ti confronti, con cui hai a che fare per riuscire a capire ogni volta qual’è il percorso migliore. È una direzione da seguire con alcuni paletti più precisi a cui fare riferimento ma che mi richiede ad ogni passo di scegliere dove mettere il piede. Le cose non sono necessariamente violente o nonviolente: posso spaccare la testa di qualcuno con un utilissimo martello o salvargli la vita con un coltello affilatissimo. Neanche le azioni sono di per sé violente o nonviolente. In un quartiere di Genova, ad esempio, hanno organizzato azioni ritenute prettamente nonviolente come la raccolta di firme, i cortei, i digiuni, per impedire con motivazioni razziste l’installazione di un campo nomadi. Quindi azioni "nonviolente" per scopi decisamente "violenti". Ma, come dicevo prima, anche uno sculaccione ha valore diverso in contesti diversi. Penso sia necessario stare attenti a non dare dei timbri, ma bisogna cercare di affrontare le cose ognuna per quel che è, cercando di capire ogni volta; questo richiede fatica, anche del tempo, perché bisogna farsi un'idea, informarsi, e questo può anche significare che a cinquanta anni o anche a cento non si sa dire alla prima battuta cosa è giusto e cosa è sbagliato. Però è l’unica maniera per evitare poi di fare realmente delle violenze magari soltanto perché ad un certo punto si è arrivati a concludere che una cosa è così "e basta" e tutto ciò che avviene dopo lo ignoriamo perché pretendiamo di "aver capito tutto". La nonviolenza è fatta di persone che non hanno "capito tutto" o meglio che sono sicure di non avere già capito tutto.

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Violenza

A questo punto bisognerebbe addentrarsi nella definizione del termine violenza: provo sommariamente a darne una, tra le tante, che penso sia come molte altre discutibile, ma che mi sembra tenga correttamente conto di aspetti etici, fisiologici, psicologici e sociali. Fare violenza è creare deliberatamente sofferenza fisica e morale in altri al fine di imporre ad altri il proprio vantaggio o di raggiungere la propria gratificazione.
Per questo la nonviolenza non esclude di usare strumenti che, ad esempio, costringono l'avversario. Magari non lo costringono con la forza fisica ma, ad esempio, con la forza psicologica: ai tempi in cui a Genova c’era la campagna contro la Mostra Navale Bellica, che era una mostra-mercato di sistemi d'arma, i manfestanti impedirono l’accesso alla mostra ai visitatori costringendoli, nel caso avessero voluto entrare, a scavalcare i loro corpi. Tutto è iniziato nell'82: in dodici persone volantinarono davanti all'accesso della mostra. Di anno in anno si è creata una campagna vera e propria che, partendo da una notevole attività di sensibilizzazione e quindi una crescita della città e arrivando all'azione diretta nonviolenta durante i giorni della mostra, ha portato nel 89 all’ultima edizione della mostra. Durante le azioni di blocco ci eravamo dati l'obiettivo di impedire l’accesso alla mostra ma alcuni ci obiettavano che impedire a qualcuno di entrare era fargli una violenza, se non fisica, perché nessuno veniva toccato, almeno psicologica, perché li intimorivamo con la nostra presenza. Chi entrava era libero di passare ma per far quello doveva fare del male ai manifestanti camminando loro addosso e questa era vista da alcuni come una violenza psicologica nei suoi confronti, una violenza che poteva shockarlo, creargli disagio, poteva in qualche modo turbarlo. La considerazione era che quel disagio, quella sofferenza servivano a farlo riflettere sulla sofferenza incommensurabilmente maggiore creata dalle armi che andava a trattare nella mostra, l'azione non era fatta per evitare la sofferenza dei manifestanti (che per altro, se decideva di passare, aumentava), né per sconfiggerlo e danneggiarlo a vantaggio di chi gli impediva il passaggio, ma per far riemergere la sua umanità e per questo non era da considerare una violenza.
Molte volte si abusa del termine violenza: come dicevo prima, per superare un conflitto a volte è necessario lo scontro e questo vuol dire avere a che fare con una realtà sgradevole. Molte volte si accusa di essere violento un atteggiamento sanamente aggressivo e molte altre invece si giustificano e si assecondano comportamenti molto violenti magari solo perché non lo sono in maniera evidente. Bisogna riflettere ogni volta sulle singole situazioni. Per esempio alcuni ritengono che dare una patta sul sedere ad un bambino sia una violenza inaudita, ma penso che dipenda molto dalla situazione. Se lo sculaccione gli arriva per il fastidio dato da un genitore stanco che non ha voglia di dare tante spiegazioni è un conto, mentre se lo sculaccione arriva, magari sul pannolino, da un genitore serio e concentrato dopo che il bambino è scappato attraversando la strada senza guardare può essere invece un’ottima occasione per farlo riflettere senza conseguenze negative, per esempio, sul pericolo che lui ha corso. In quel caso la patta non è una vendetta, non è data per dare dolore, ma crea un canale di comunicazione che altrimenti difficilmente potrebbe essere altrettanto forte.

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Nonviolenza

Quello che posso dire qui sulla nonviolenza è solo il mio punto di vista, quello che io penso, perché sul tema della nonviolenza ci sono molti punti di vista che possono anche risultare molto diversi tra loro su alcuni argomenti.
L’unica cosa che forse viene condivisa da coloro che parlano di nonviolenza è che nessuno può pensare di avere la verità in tasca. Questo significa che all’interno degli ambienti che si rifanno al concetto di nonviolenza ci sono le posizioni più diversificate, quello che si intende per nonviolenza è estremamente variegato, oggi ancora più che nel passato. Rispetto ad alcuni anni fa, c'è stato un cambiamento che da un lato è positivo e dall’altra è negativo: il termine nonviolenza è entrato nel linguaggio quotidiano, in politica è perfino diventato un termine rivendicato da più parti mentre soltanto dieci anni fa c’era un solo partito che timidamente utilizzava questo termine nei propri programmi. Ora come ora tutti quanti "sono" nonviolenti e questo implica che il termine si è esteso, ha aumentato i suoi significati, ma ha anche diminuito la sua definizione: come una coperta che viene tirata da tutte le parti il termine "nonviolenza", a seconda di chi lo tira, copre cose diverse e in maniere diverse.
Per questo motivo quello che scriverò sarà in quest’ottica: anche quando sembrerà che parli in termini assoluti starò solo scrivendo del mio modo di vedere la nonviolenza, che deriva dalle mie esperienze e dalle mie riflessioni.
La prima cosa che penso sia importante dire è che la nonviolenza non è soltanto pratica e non è soltanto teoria. Nella nonviolenza si cerca di superare le contrapposizioni, che spesso banalizzano la realtà. Per esempio, anche se sembra normale che in un conflitto si cerchi di vincere, se non si ha paura a uscire dagli schemi ci si rende conto che vincere implica la sconfitta dell'altro e la sconfitta dell'altro implica la continuazione del conflitto.
La teoria non è indipendente dalla pratica, perché la teoria e la pratica spesso si rincorrono. Questo, per esempio, implica una cosa ben precisa: mentre per molti che si limitano ad una visione teorica la nonviolenza dovrebbe essere ciò che rifugge lo scontro perché è violento, se si cerca di mettere in pratica la teoria ci si rende conto che in molte situazioni si deve arrivare a scatenare lo scontro. Purtroppo anche in Italia ci sono molti che si definiscono nonviolenti solo perché non sono in grado di essere violenti e quindi giustificano la loro incapacità a reagire alla violenza definendola nonviolenza. Io non penso che la nonviolenza sia ciò che fanno quelli che non riescono ad essere violenti. In effetti la nonviolenza è di chi violento saprebbe e potrebbe esserlo benissimo ma sceglie di non esserlo. Se io so essere violento e scelgo di non esserlo è perché veramente so cosa sto scegliendo; se io non so essere violento non so neanche cosa sto scegliendo e spesso neppure capisco realmente la differenza tra violenza e nonviolenza.
Con una visione più disincantate della nonviolenza, con un approccio meno ideologico ma più scientifico, si può riconoscere nell’aggressività un qualcosa di estremamente positivo. Di solito quando una persona mostra un atteggiamento aggressivo, reattivo, lo si considera subito come violento e quindi il suo comportamento viene squalificato.
Ma questo è un equivoco.
Essere aggressivi (dal latino "ad gredior": vado verso) significa affrontare il problema, significa, per esempio, reagire ad una sofferenza non solo individuale ma anche sociale, reagire all’ingiustizia. Quindi da questo punto di vista la nonviolenza è aggressione, o meglio, è una forma di aggressività che riesce ad utilizzare strumenti che cercano di evitare la sofferenza evitando per quanto possibile di far soffrire l’altro, in altre parole che non gli fanno violenza. L'aggressività è quella sana energia che permette alla specie umana di progredire reagendo alle difficoltà senza sprofondare nella depressione. Perfino il guizzo dell'antilope è una risposta aggressiva all'attacco della leonessa.

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