Pensieri circolari

se i pensieri vanno dritti spesso sbagliano mira

16/02/10

Oltre i cortei e le elezioni

Qualcuno pensa ancora che la degenerazione dell'Italia attualmente in corso possa essere fermata con cortei e elezioni.
Alla fine dell'ottocento i lavoratori, gli sfruttati di allora, hanno cominciato a capire che serviva un lavoro più profondo, di formazione e organizzazione, di diffusione delle conoscenze e delle basi etiche. Bisogna riprendere da allora ma evitando le derive ideologiche pur vaccinandosi dall'invadenza dei profittatori. Un lavoro lungo, di generazioni.
In questa maniera sono riusciti a mettere in discussione il privilegio dei ricchi su tutti gli altri. Ma con gli anni i ricchi hanno capito che dovevano organizzarsi per riprendere il predominio. Dopo un po' di tentativi mal riusciti (golpe Borghese) e di contraccolpi sfruttati al meglio (terrorismo) hanno sostenuto la Lega e Berlusconi, fatto la P2 e tutto il resto. Adesso tocca agli sfruttati riequilibrare le cose se non vogliono rimanere schiacciati per decenni

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23/10/09

Per mettersi in mezzo (18)

1/8/09
Oggi c'è il Festival della Resistenza Nonviolenta. Inframezzato dalle “dabke” fatte dai bambini del villaggio si susseguono alcuni interventi delle associazioni e dei gruppi che collaborano con il villaggio nelle iniziative. Era bello sentire un attivista di Ta-ayush parlare in israeliano con la traduzione in arabo. Le ragazzine facevano delle litanie alternate. Alla fine viene rappresentata una scenetta dove alcuni pastori vengono aggrediti dai coloni e i soldati dell'esercito invece di proteggere i pastori aggrediti li vessavano ulteriormente e una scenetta in cui, se non ho capito male, si parlava di un matrimonio finito male.
Tornando alla casa mi dicono che la ruspa che stamattina mi ha nuovamente svegliato martellando l'ennesimo buco è stata fermata dalla DCO, l'autorità israeliana che controlla gli aspetti civili dell'occupazione. Mi dicono che ci sono due americani che controllano quello che sta succedendo. Vado a vedere anche io, visto che è anche vicino. La ruspa sta ancora scavando, c'è un humvee e una jeep fermi lungo la strada, dei soldati che parlano con i palestinesi. Sembra si stiano mettendo d'accordo. Mi avvicino ad uno dei due graduati, mentre l'altro sta telefonando.
Gli chiedo cosa sta succedendo. Mi chiede da dove vengo, dico Italia, mi chiede il passaporto, glielo do. Mi dice che hanno dato ordine di interrompere i lavori. Gli chiedo cosa succede se non smettono di lavorare. Quello che ha finito di telefonare mi dice che gli ha concesso di spostare le rocce che ostruivano l'entrata di casa “dove ci sono donne e bambini” ma poi smettono. Chissà cosa avrebbero fatto se fossero stati tutti maschi adulti. Mi chiede come mai sono lì e gli spiego che sono in visita e che sono venuto per cercare di capire le ragioni di questo conflitto. Intanto che sto chiacchierando con loro arriva una delle due americane che erano a debita distanza a guardare e mi chiede sussurrando se ho il passaporto. Le dico di si. Poi mi suggerisce di stare più lontano dai militari. Loro di solito non ci parlano, al massimo si limitano a urlargli dietro. Le dico di non preoccuparsi.
Dopo un po' la ruspa finisce di spostare i pietroni. Chiedo ai militari se gli rilasceranno un foglio che gli ordina di interrompere i lavori. Il primo di indica il secondo come a dire lo fa lui. Alla fine però non vedo girare nessun foglio. Dubito che ne abbiano consegnato uno ma questo significa che non sarà possibile neppure fare un ricorso per via amministrativa. Come per la linea della corrente elettrica.
Nel pomeriggio dopo lungo temporeggiare partiamo per Gerusalemme. Fabio ci accompagna a vedere Hebron e la sua colonia di ebrei.
Nel centro storico della città, che è completamente araba da secoli, dato che è presente il luogo che si ritiene sia la tomba di Abramo si sono andati ad installare dei fondamentalisti ebrei che hanno occupato in alcune situazioni il piano superiore della case creando non pochi problemi ai negozi sottostanti che in parte hanno chiuso e altri invece hanno dovuto mettere delle reti per cercare di bloccare il lancio di oggetti dall'alto. Una via della città vecchia che un tempo era vivacissima e congiungeva due lati della città adesso è bloccata da dei containers perché è stata occupata dai coloni. Ci addentriamo e arriviamo ad un check point che porta all'edificio che racchiude la tomba dei patriarchi. Prima l'edificio era una moschea ma adesso è stato diviso in due, metà moschea e metà sinagoga. Ci mancherebbe che anche i cattolici rivendicassero Abramo come proprio capostipite e pretendessero una fetta anche per loro. Anche se, per altro, almeno i cristiani non escludono i credenti in altre religioni dai loro luoghi di culto per cui un cristiano non può andare a visitare le tombe dei patriarchi a meno che non si finga ebreo o mussulmano.
Ripartiamo da Hebron e quando arriviamo a Betlemme avviene una piccola tragedia. Nella foga del cambio di bus mi cade il cellulare ma me ne accorgo solo quando sono già in viaggio per Gerusalemme. Non sembra ma in certe situazioni un evento che da sicuramente fastidio perché non è solo una questione di soldi ma di informazioni importanti o che si ritengono preziose perse, può diventare molto più grave. Intanto che Gerusalemme si avvicina mi vengono in mente tutti i problemi che la perdita comporta anche nei giorni successivi. Quando arriviamo a casa sono veramente sconfortato e non mi tira su il pollo fritto e patatine che andiamo a prendere in centro.

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Per mettersi in mezzo (17)

31/7/09
Durante la notte l'aria si rinfresca parecchio e sale una forte umidità tanto che all'alba intravedo nel dormiveglia il sole dietro delle nuvole con tutte le gradazioni dell'arcobaleno. Mi godo l'immagine e mi giro dall'altra parte.
Quando sentirò un martello pneumatico mi verrà in mente la Palestina. Anche stamattina che teoricamente non avrei nessun compito e potrei dormire sono stato svegliato dal martellare del martello pneumatico di una ruspa che da quando sono qui sta crivellando il villaggio di voragini. Dubito che siano tutti lavori autorizzati, anche perché non so se da queste parti serve una autorizzazione per bucare o costruire all'interno dei piani di espansione, ma non sono neppure sicuro che siano tutti dentro i confini del piano di sviluppo del villaggio. Uno dei buchi infatti è stato fatto di lato alle macerie di una delle case che in passato sono state demolite dagli israeliani perché fuori dei confini. Non che i palestinesi si siano demoralizzati, lo hanno ricostruito in muratura a forma di tenda e lo hanno ricoperto con una tenda vera. Comunque da mattina a sera per il villaggio si sente un martellare assordante e costante.
A metà mattinata gli altri del gruppo, non avendo niente fa fare dato che il summer camp è ormai finito, decidono di fare una passeggiata fino al villaggio a fianco dell'altra colonia. Mi chiedono se vado ma non ho voglia di farmi due camminate di un'ora sotto il sole, soprattutto al ritorno, per tornare dove ero andato a controllare lo scavo delle latrine (altra giornata di martello pneumatico). Così resto alla casa con gli americani che non sono andati a Tuba a dormire, Mi viene voglia di andare all'albero sopra il villaggio a leggere un libro e quando sto per partire noto una strana agitazione tra gli americani. Diana è impegnata in una telefonata abbastanza concitata e alla fine le chiedo cosa sta succedendo. Mi dice che i militari e la polizia hanno fermato il gruppo di americani che erano a Tuba e stavano accompagnando dei pastori al pascolo, gli hanno ritirato le carte di identità e li minacciano di arresto. Mi dice anche che gli altri del gruppo che stavano transitando per andare all'altro villaggio, che sono arrivati nel frattempo, sono stati avvertiti di cosa stava succedendo e si sono defilati osservando da lontano. Chiamo la Fede e mi dice che sono fermi al sole ad aspettare di vedere cosa succede.
Non potendo fare niente per il momento dico a Diana che sono all'albero e di chiamarmi se posso essere utile.
All'alberone sopra il villaggio l'aria è fresca e il vento tira allegro. Il panorama è molto bello. Una cosa meravigliosa di questi posti è che vedi ovunque. Anche oggi, dopo che l'umidità della notte si è dileguata, dalla collinetta su cui è l'albero si vedono i villaggi e le cittadine a chilometri e chilometri di distanza, si vedono i trattori che vengono e vanno, le persone che camminano lungo le strade come in un presepe immenso. E qui proprio di presepe si può parlare.
Dopo un'oretta chiamo Fede per sapere che ne è di loro. Mi aveva detto che mi avrebbe aggiornato ma non ho ricevuto nessuna notizia. Mi dice che sono ancora piantati sotto il sole ad osservare quello che sta succedendo agli americani. Mi sento un po' in colpa di stare al fresco sotto l'albero, stamattina mi è andata bene ad essere stato un po' pigro.
Dopo un'altra ora, quando sto per richiamare ricevo  un messaggio di Fede che mi dice che sono tornati a casa. Alla fine la polizia ha restituito i documenti a tutti ed ha portato alla stazione di polizia il pastore per fornire chiarimenti sulle cosa che ha chiesto, almeno così dice la polizia. Mi viene il dubbio che questa volta la presenza di tutti quegli internazionali, metà della delegazione americana, assieme al pastore sia servita più ad attrarre i militari che a dissuaderli dall'intervenire. In compenso i membri della delegazione sembrano provati dall'esperienza. Verrebbe da pensare che la cosa sia stata organizzata come simulazione di una situazione di conflitto per il loro training.
Nel pomeriggio andiamo tutti all'albero anche con il responsabile di tutti i progetti appena arrivato dall'Italia in vista della riunione del 2 con gli americani che, appena arrivato all'albero, chiede ai volontari permanenti di appartarsi con lui per una riunione. Noi restiamo a chiacchierare e prendere il fresco che ormai tanto fresco più non è. Dopo un'oretta tornano dall'albero e questa volta ci chiedono di andarcene perché hanno appuntamento lì con il “capo villaggio” per parlare con lui del futuro della permanenza degli italiani. Mi sento infastidito. Alla partenza mi era stato esplicitato, senza che neppure lo chiedessi, che qui non ci sarebbe stata distinzione a seconda della durata della propria permanenza come volontari, tanto che avevo pensato che, proprio perché novellino della situazione, mi sarei impegnato ad ascoltare prima di dire la mia come spesso faccio. Eppure qui in molte situazioni noto che i volontari di periodo più lungo si aspettano un certa subordinazione da parte di quelli di più breve periodo, per esempio riguardo al cosa fare nelle situazioni di emergenza, anche se esplicitamente la cosa viene costantemente smentita. Penso che possano esserci ottime ragioni per dare più importanza alle posizioni di chi ha maggiore esperienza in loco, ma penso sia più corretto riconoscere la cosa invece che affermare in teoria il contrario.
Prima di cena chiedo a Ele, che cura il calendario, che turni farò nei prossimi giorni, anche per potermi organizzare eventuali visite quando sono a Gerusalemme. Lei mi risponde che domani tornerò con quelli del summer camp. Quando le faccio presente che non le avevo chiesto cosa facevo “il prossimo giorno” ma “i prossimi giorni” mi dice che non sa ancora dirmi e la cosa mi indispettisce non poco visto che è da una settimana che le ho spiegato anche il motivo per cui vorrei poter sapere con un po' di anticipo quali turni farò.
Alla sera, dopo cena, Fabio mi chiede di fare due passi con lui. Viene anche Ele. Chiacchieriamo del più e del meno nel buio subito fuori dal paese. Il paesaggio è veramente bello, con le luci di tutti i villaggi in lontananza, e per caso ci sediamo di fianco ad una pianta che ha un profumo intenso e molto buono. Ad un certo punto il discorso arriva ai turni e mi chiedono se io pensavo ancora di tornare al villaggio nei prossimi giorni. Un po' mi stupisco e dico che se ho dato la disponibilità per un certo periodo non mi sembrerebbe neppure corretto cambiarla a metà e comunque non avrei motivo di non voler venire ancora al villaggio. Allora mi chiedono come sono state queste due settimane per me. Gli spiego che ci sto ancora riflettendo, che sto osservando e vivendo le cose per poi rifletterci anche in seguito. Mi dicono che sono molto interessati alle mie osservazioni, che ci tengono perché pensano siano molto utili per permettergli di rivedere la loro esperienza in confronto ad altri approcci. In fondo io Fabio e Ele ci siamo conosciuti in occasioni di formazione sui temi della gestione dei conflitti in aree di crisi ma non abbiamo avuto mai molta possibilità di scambio di idee e di confronto.
Io gli prometto che finito il periodo condividerò con loro le mie riflessioni ma che mi sembra meglio adesso vivere l'esperienza senza che le mie valutazioni vadano ad interferire con la vita del gruppo. Così me ne torno alla casa nel silenzio della notte con il vento che mi accarezza sentendo che da parte loro c'è una stima profonda come io ho per loro.

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22/07/09

Per mettersi in mezzo. (1)

15/7/2009
Arrivare a Gerusalemme è facile, un'oretta dall'aereoporto di Tel Aviv con un nesher, un taxi collettivo con aria condizionata. Sembra di essere in un posto normale, se non fosse che in un parco che probabilmente ricorda il luogo dii una battaglia ci sono a fare da monumento delle carcasse di mezzi militari e i giochi per i bambini sono fatti a forma di jeep da cui sparare sui nemici.
A dire la verità ogni volta che vedevo un bus mi venivano in mente le foto dei bus fatti esplodere dai “martiri” palestinesi mietendo la loro vita assieme a quella di tante persone più o meno ignare e più o meno innocenti. Adesso stanno costruendo una tramvia nuova, forse pensano sia più controllabile.
Di cantieri non ne mancano, è tutto un gran costruire case per i nuovi arrivati dai paesi più diversi. Perché in effetti gli israeliani non esistono come popolo, sono un mix di popoli di tutto il mondo e l'unica cosa che li amalgama, come un tempo i siciliani con i veneti, è il servizio militare.
All'aeroporto, al controllo dei passaporti, hanno cominciato a farmi domande. Lo fanno sempre, soprattutto per chi si presenta da solo. La poliziotta non si è accontentata di quello che le dicevo, di dove avevo intenzione di andare, e così ha trattenuto il mio passaporto. Nel frattempo sono passate altre persone con la fondata motivazione che erano “del gruppo di don Mario” (detto in italiano alla poliziotta che non lo capiva). E' venuto un altro poliziotto per accompagnarmi in una saletta. C'erano altri “selezionati” come me ad aspettare. Dopo poco però, senza che mi chiedessero alcunché, mi hanno accompagnato al posto di polizia e mi hanno restituito il passaporto timbrato. Si vede che una persona che da sola va a Gerusalemme senza il volo di ritorno prenotato non risulta credibile alla prima... o forse avevano solo voglia di darmi un po' fastidio.
E così a sera posso solo dire una cosa su questo paese:che ho notato: le israeliane sono anche carine ma vestono in una maniera orrenda.

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17/04/09

Educazione all'odio in Palestina

Nel video in http://www.youtube.com/watch?v=aAuKMoEQkCI si può vedere dei ragazzi figli di coloni israeliani aggredire delle ragazze palestinesi che escono da casa.
 
Questo per dimostrare quanto sia fondamentale l'educazione di una popolazione non solo per il futuro ma anche per il presente. E in Italia l'attenzione è sempre minore verso l'educazione perché gli adulti non vogliono fare fatica e preferiscono lasciare i giovani senza educazione. In Palestina è ancora peggio e l'educazione viene usata come un arma e per questo il dolore è profondo e potrà finire solo per una catastrofe.
 
Per spiegare le cose tutto si può, anzi si deve citare, anche i palestinesi che si fanno saltare sugli autobus pieni di gente, donne e bambin. Diciamo che la differenza è che gli uomini bomba ci rimettono anche la loro vita e gli altri no. In ogni caso non penso si possa mettere sullo stesso piano chi schiaccia e chi cerca di non farsi schiacciare.
Sono entrambe frutto di una educazione all'odio vicendevole. Volendo si può anche aggiungere che tra palestinesi e israeliani i secondi sono i più democratici. Ma non è che decidere democraticamente di schiacciare un altro popolo lo renda meno odioso.
Posso aggiungere che anche i partigiani hanno ammazzato in via Rasella dei giovani cresciuti nella convinzione di dover dominare il mondo ma che avevano madri e affetti e forse erano lì contro la loro volontà. E io sono convinto che fosse possibile e auspicabile liberarsi senza torcere un capello a nessun nazista, ma non confonderei i ruoli.
 
Ci se ne può anche fregare del fatto che ci rimetta la sua vita uno che ammazza donne e bambini innocenti su un autobus perché e' un assassino.e che non si può mettere sullo stesso piano un soldato israeliano e un bambino israeliano perché la guerra si fa contro i soldati e non contro gli innocenti, ma penso che ancora peggio sia uno stato il cui esercito fa a donne e bambini lo stesso che fanno dei terroristi. A meno che non si voglia dire che tutti i bambini e le donne palestinesi sono colpevoli mentre quelli israeliani sono innocenti. Dal video si può vedere che non è vero. Almeno i terroristi non lo decidono democraticamente e potrebbero essere anche dei pazzi sanguinari mentre uno stato non può permettersi di essere pazzo e sanguinario.
Io penso anche che una guerra non si dovrebbe fare neppure contro i soldati perché anche i soldati spesso non sono che poveri cristi che si trovano un fucile in mano senza averne voglia.
Il fatto che uno ci rimetta la vita non dovrebbe servire a santificarlo ma dovrebbe far riflettere sul livello di disperazione che può avere raggiunto nella sua vita.
A me frega della vita anche degli assassini, che lo facciano per un ideale o per interesse personale. E non mi interessa solo per loro ma anche per la mia di vita. Se nego l'importanza della vita degli assassini sto cominciando a negare l'importanza della mia di vita.
Riguardo poi all'equiparare i nazisti con gli israeliani bisogna osservare che i nazisti non erano tutti pazzi sanguinari ma semplicemente un popolo educato all'odio contro il diverso, proprio come sta avvenendo in Israele adesso (o come succedeva in Sud Africa durante l'apartheid). E la prima educazione all'odio è il cercare le colpe dell'altro invece di cercare le sue ragioni.
 

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13/01/09

Il lupo israeliano e il capretto palestinese

Un branco di lupi israeliani e un capretto palestinese erano venuti presso il medesimo ruscello spinti dalla sete.
Il branco dei lupi israeliani stava più in alto, il capretto palestinese molto più in basso. Allora il capo del branco di lupi israeliani cominciò a dire "Perchè tu vuoi attentare alla nostra esistenza con le tue corna?".
Il capretto palestinese timoroso in risposta:" Come posso, di grazia, fare ciò di cui ti lamenti, oh lupo? Sto più in basso di te e se salissi da te arriverei già stanco e se anche provassi a darti una cornata, con le tue zanne e i tuoi artigli mi dilanieresti". Di fronte all'evidenza il capo dei lupi disse "Sei mesi fa dei capretti che stavo inseguendo mi hanno tirato una cornata". Rispose il capretto palestinese: "ma cosa ne posso io, che allora non ero neppure nato". Il capo dei lupi replicò ""Tuo padre, maledizione, mi ha fatto la cacca davanti, una volta che lo inseguivo". E così afferra il capretto palestinese e lo sbrana, banchettando con gli altri del branco.
Un po' più in là uno sciacallo statunitense si rivolse ad un bufalo italiano e gli disse "Il lupo ha proprio ragione, quel capretto era proprio pericoloso, il lupo ha fatto bene a difendersi" e si avvicinò al banchetto sperando che ne restasse anche per lui. Il bufalo italiano, a quel punto, si allontanò in silenzio pensando che in effetti le corna della capretta erano veramente troppo pericolose ma, sentendosi buono, se la capretta ne vesse avuto bisogno, una volta tornato, l'avrebbe sicuramente aiutata a rimettersi in piedi.

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24/11/08

Che fare?

Sempre più spesso ci sono persone che si domandano che fare per uscire dal vortice che sta facendo sprofondare la convivenza civile e sociale.
Votare non ha più senso perché il consenso viene manipolato e stravolto per mantenere il potere da chi lo detiene, l'azione volontaria viene sfruttata per i fini più diversi, spesso di lucro, l'azione virtuale rimane inefficace.
Il fatto è che penso che le popolazioni necessitino di livelli di attivazione molto significativi. Questi possono essere raggiunti per il dolore sofferto (come nel caso delle guerre) o per una pratica del conflitto che deriva da una capacità critica. Non auspicando la prima ipotesi che normalmente richiede un costo veramente alto, l'altra alternativa di trasformazione e miglioramento risulta la migliore. Ma se a questa si oppone la sterilizzazione della capacità critica l'unica possibilità che rimane è drammaticamente la prima.
Proprio per questo, se si vuole evitare la sofferenza dell'esplosione violenta dei conflitti, bisogna abituarsi a praticare una capacità critica e ad affrontare i conseguenti conflitti, imparando possibilmente a gestirli e traformarli in maniera nonviolenta, che non vuole dire semplicemente simbolica.
La sfida è tra accettare che certi pazzi che pensano di poter sfruttare sempre di più gli altri continuino ad anestetizzare la capacità critica altrui e nostra impedendoci di ribellarci fino a quando la sofferenza estrema farà esplodere violentemente il conflitto sociale e metterà a repentaglio la vita di tutti oppure cominciare ad agire per recuperare la capacità critica delle generazioni, riaddestrandoli anche al conflitto interpersonale e sociale. Per fare questo però bisogna risvegliare noi stessi dal torpore delle coscienze in cui siamo immersi ed aiutare gli altri a fare altrettanto sia sensibilizzandoli ma soprattutto mettendo in ballo la vita stessa nostra e degli avversari, non tanto insidiando la loro incolumità quanto coinvolgendoli anche emotivamente e fisicamente nella presa di coscienza delle conseguenze dei loro atti. Questo può avvenire tramite la cosiddetta "azione diretta", una pratica politica che viene messa in opera con strumenti anche molto diversi tra loro (da quelli violenti a quelli nonviolenti) e di cui però si sta perdendo la conoscenza.
L'alternativa è lo scivolare verso un imbarbarimento dei disequilibri che si fermerà solo quando la sofferenza delle popolazioni le spingerà a ribellarsi, cosa che di solito è avvenuto in maniera violenta e cruenta.
Non basta più mandare email o firmare petizioni e perfino fare scioperi di opinione o partecipare a cortei. Sono metafore conflittuali che hanno senso solo nella misura in cui le parti in gioco hanno coscienza dell'importanza di limitare sul piano simbolico lo scontro per fare in modo che il conflitto non abbia conseguenza nefaste per entrambe i contendenti. Ma in una società in cui l'ignoranza politica delle parti in gioco fa perdere la coscienza dell'importanza dei conflitti simbolici diventa del tutto superfluo rimanere su tale livello quando manifestazioni di centinaia di migliaia di persone vengono ignorate perché banalmente non creano nessun problema, neppure alla semplice possibilità di spostamento dell'avversario o gli scioperi non intaccano di un pelo il suo portafoglio.
"Azione diretta" non è solo il terrorismo o lo violenza dei black block, ma può essere il blocco dei treni che portano armi o anche solo il blocco delle sfilate di auto blu ad inaugurazioni o cerimonie.
Se i potenti pensano di poter ignorare gli altri uomini saranno gli altri uomini che dovranno farsi prendere in considerazione e se non si riuscirà a fare ciò con strumenti efficaci ma incruenti basterà aspettare per vedere scorrere il sangue. Cossiga, il più squallido rappresentante del potere, docet.

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14/11/08

Lotta di classe

Ma in uno stato in cui si riconosce l'abuso da parte dello stato stesso e allo stesso tempo non lo si persegue la situazione è peggiore che in uno stato in cui l'abuso viene nascosto (magari con vergogna o anche solo perché ritenuto inaccettabile).
L'arroganza del potere che dice alle persone "io faccio quello che voglio di voi" è una sfida bella e buona che se non trova una risposta diventa una conferma.
Ma la risposta dubito che ci sarà.
Dopo tanti anni abbiamo un governo che ha messo in atto la lotta di classe. Le classi alte sono partite all'attacco delle classi basse. Non avendo la forza dei numeri usano la forza del potere ed economica. Da centinaia di anni i ricchi hanno contrastato con un po' di vergogna l'attacco dei poveri che chiedevano giustizia. Adesso lo scenario si è ribaltato. Senza più alcun richiamo etico i ricchi e forti stanno cercando di ripristinare il loro dominio assoluto sui poveri e deboli.
E non trovando alcun tipo di risposta procedono nella direzione del soggiogamento più completo dei loro sudditi e a breve schiavi.
La nonviolenza potrebbe impedirglielo, ma per far questo servirebbe una coscienza che non c'è.

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15/03/08

Nonviolenza e conflitto

La nonviolenza non ha paura del conflitto, anzi, in molte situazioni lo "crea", soprattutto in quelle situazioni in cui la tranquillità cerca di nasconderlo, perché spesso i conflitti ci sono ma sono nascosti. La nonviolenza "crea" conflitto nel senso che lo rende evidente, lo fa diventare una questione con cui tutti devono avere a che fare, sia quelli che preferiscono non vederlo, sia quelli che lo nascondono. Il nonviolento è necessariamente un rompiscatole, perché rompe le scatole non solo a chi fa direttamente la violenza, ma anche alla stragrande maggioranza che la accetta e fa finta di non vederla. Quindi scegliere di essere nonviolenti, e non limitarsi semplicemente a non essere violenti, significa andare ad impelagarsi in un bel po' di problemi, anche rischiando di perdere quella tranquillità che uno potrebbe avere rientrando tra quelli che la violenza altrui "non la vedono". Sicuramente la nonviolenza affronta il conflitto e in alcune situazioni lo evidenzia, lo fa esplodere con lo scopo di cercare una soluzione che può essere sia una ri/soluzione sia una dis/soluzione. Il conflitto ha varie possibilità di evolvere e purtroppo, molte volte, proprio per il fatto che viene nascosto, continua. Invece è proprio dall’affrontarlo, dal farlo maturare, che si può riuscire a farlo emergere e possibilmente farlo finire.
Il conflitto, quando viene affrontato, può essere risolto trovando una soluzione valida per tutti ma altre volte può semplicemente dissolversi perché il motivo del confitto non era sostanziale, spesso era solo motivato da una incomprensione o da un fraintendimento, e quindi, facendolo emergere, è possibile semplicemente superarlo riconoscendone l'infondatezza e trasformandolo in una occasione di dialogo.
In ogni caso la nonviolenza ha a che fare con il conflitto, anche se non per questo deve portare necessariamente ad un vita di conflitto. Spesso si pensa che non affrontando i conflitti si vive più tranquilli ignorando le tensioni che i conflitti generano anche a chi nel conflitto ha una posizione predominante. La nonviolenza permette anche una vita in cui dal conflitto si esce positivamente recuperando le situazioni di tensione e facendole diventare situazioni positiva. Affrontare il conflitto in maniera nonviolenta può migliorare anche la propria qualità di vita, assieme a quella altrui. Ma per fare emergere i conflitti spesso è necessario arrivare all’azione. Di nuovo arriviamo al dualismo tra pensiero ed azione, tra teoria e pratica. Non ci si può solamente limitare a discutere, diffondere informazione, diffondere conoscenza, è necessario in molte situazioni passare all’azione. È vero che la sensibilizzazione, la divulgazione e l’informazione fanno crescere la sensibilità e sono molto importanti, anche all’interno delle iniziative nonviolente, proprio per aumentare la capacità dell’ambiente di risolvere il conflitto, ma in molti casi non è sufficiente ciò che le singole persone che si sono sensibilizzate faranno di conseguenza. Il fatto che persone che hanno recepito la sensibilizzazione agiscano di conseguenza è positivo ed auspicabile ed utile ad evitare conflitti futuri, ma, soprattutto nelle situazioni di conflitto evidente, spesso non è sufficiente. È quindi necessario arrivare ad un azione che sia concreta, specifica e mirata al conflitto stesso. Questo è il punto più delicato perché la nostra educazione da centinaia di anni se non da millenni, prevede che l’ azione nel conflitto è necessariamente un'azione di tipo violento tanto che spesso il termine conflitto viene equiparato a quello di violenza.

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