Pacifismo e democrazia
Se per molti anni le istanze legate al tema della pace sono state portate avanti con modalità autonome di disobbedienza civile ed azione diretta (si pensi agli scioperi generali durante il fascismo per porre fine alla guerra, alla scelta di accettare la prigione per vedere riconosciuta l'obiezione di coscienza engli anni 60, ai blocchi degli accessi della base per missili nucleari di Comiso o della Mostra Navale Bellica di Genova negli anni 80), col passare del tempo si è sempre più limitati a presentare richieste alle forze politiche, sperando che qualcuna se ne prendesse carico, adeguandosi alle dinamiche della democrazia rappresentativa, per esempio scegliendo di supportare le proprie richieste con cortei e iniziative analoghe.
Ma la crisi delle dinamiche democratiche, con sistemi elettorali che impediscono agli elettori di farsi effettivamente rappresentare e la manipolazione del consenso tramite il controllo dei mezzi di comunicazione che fanno sì che i governi possano ignorare se non perfino deridere manifestazioni di milioni di persone, ha ugualmente reso impotente chi su tali dinamiche intende basare la propria azione.
Penso quindi che ci possano essere due strade diverse e complementari per uscire da questa impotenza.
La prima, più diretta e a prima vista più semplice, che preveda di riprendere nelle proprie mani l'azione, non delegando più la rappresentanza delle proprie istanze. Ma ciò richiederebbe un livello di partecipazione e coinvolgimento, una disponibilità a rischiare, che non è più molto presente nella nostra società. Sarà l'unica possibilità praticata se la degenerazione democratica diffonderà il disagio e la disperazione tra ampi strati della società ma in tal caso né sarà legata solo ai temi del pacifismo né, sicuramente, assumerà le sue modalità.
La seconda strada, che non esclude la prima ed è a prima vista più complessa, affronta ad un livello più basso i meccanismi decisionali. Dai tempi della rivoluzione francese, che ha enunciato (ma ha anche in parte ottenuto) che ogni cittadino ha il diritto/dovere di partecipare alle decisioni che lo riguardano, imponendo un modello rappresentativo parlamentare, i modelli decisionali si sono modificati molto poco, nonostante sempre di più siano evidenti le debolezze che l'usura di tale modello ha fatto emergere. Sono anche stati tentati altri modelli, che sono degenerati ancora più velocemente, in cui cambiava il gruppo sociale predominante, ma alla fine il modello rappresentativo parlamentare viene dato da tutti come inesorabilmente il meno peggio.
In effetti, quando una prima fase dell'esperienza democratica finì con il periodo delle dittature europee e le guerre mondiali, si cercò di rivederla e migliorarla, per esempio con il suffragio universale, ma col tempo i sistemi sociali tendono a corrompersi perché gli aggressori diventano sempre più competenti e le difese tendono a indebolirsi. E così nuovamente ci troviamo con dei sistemi parlamentari in cui sempre meno cittadini si sentono rappresentati e sentono di influire sulle decisioni che li riguardano.
Penso sia necessario che, soprattutto noi europei che abbiamo esportato questo modello in tutto il mondo, perfino in contesti sociali in cui ha creato più danni che benefici, e che ci ergiamo a paladini di questo modello verso tutto il mondo pretendendo che tutti gli altri vi si uniformino, cominciamo a riflettere, senza preconcetti, sul suo superamento o almeno il suo restauro, non solo in linea teorica ma anche pensando a come realizzare tale miglioramento. Questo significa cominciare a sperimentare nuovi modelli decisionali, prima di tutto all'interno di chi li propone, e poi pensare dei percorsi che permettano con gli anni di farli diventare patrimonio comune. E sarebbe auspicabile riuscire a fare ciò senza dover aspettare che la caduta di efficacia delle dinamiche democratiche porti alla catastrofe umana e sociale e ecologica del mondo.
Penso che sia necessario perché non solo le istanze pacifiste ma anche tutti gli altri temi non rimangano semplici proposte teoriche che nessun sistema decisionale arriverà a attuare. Da questo punto di vista dall'ambito pacifista potrebbero venire un notevole contributo non solo di idee ma anche di esperienze, facendo in modo, per esempio, che il 61% degli italiani che non vogliono la presenza di soldati italiani negli scenari di guerra vedano realizzate le loro aspettative.
Si tratterebbe di ripensare ai meccanismi della rappresentanza e della partecipazione, tenendo conto della sempre più ridotta disponibilità delle persone a rimetterci del proprio per il bene comune ma allo stesso tempo di un recupero culturale della nozione di bene comune.
Probabilmente sarebbe utile seguire entrambe le strade perché limitarsi a riflettere sulla revisione dei meccanismi consensuali senza impegnarsi a recuperare almeno un livello di partecipazione e coinvolgimento sarebbe probabilmente solo un esercizio accademico. D'altra parte limitarsi ad affidarsi all'azione diretta, a parte i problemi di coinvolgimento, costringerebbe ad un tale impegno di energie e di tempo che permetterebbe di affrontare solo un numero molto ristretto di argomenti, abbandonando inefficacemente gli altri ai meccanismi democratici attuali.
Carlo Schenone.
ex incaricato nazionale del settore Pace, Nonviolenza e Solidarietà degli scout dell'AGESCI, ex capogruppo di "Democrazia e Partecipazione" nel Consiglio Comunale di Genova, ex segretario nazionale delle Forze Nonviolente di Pace, docente al Master "Gestione dei conflitti interculturali ed interreligiosi" dell'Università di Pisa, docente al corso di Laurea Specialistica in Scienze della Pace dell'Università di Pisa, membro del gruppo stampa del Genoa Social Forum durante il G8 di Genova, trainer.
pubblicato su www.carta.org il 16.08.2006
http://archivio.carta.org/campagne/pace/pacifismo/060816Schenone.htm
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