Violenza
A questo punto bisognerebbe addentrarsi nella definizione del termine violenza: provo sommariamente a darne una, tra le tante, che penso sia come molte altre discutibile, ma che mi sembra tenga correttamente conto di aspetti etici, fisiologici, psicologici e sociali. Fare violenza è creare deliberatamente sofferenza fisica e morale in altri al fine di imporre ad altri il proprio vantaggio o di raggiungere la propria gratificazione.
Per questo la nonviolenza non esclude di usare strumenti che, ad esempio, costringono l'avversario. Magari non lo costringono con la forza fisica ma, ad esempio, con la forza psicologica: ai tempi in cui a Genova c’era la campagna contro la Mostra Navale Bellica, che era una mostra-mercato di sistemi d'arma, i manfestanti impedirono l’accesso alla mostra ai visitatori costringendoli, nel caso avessero voluto entrare, a scavalcare i loro corpi. Tutto è iniziato nell'82: in dodici persone volantinarono davanti all'accesso della mostra. Di anno in anno si è creata una campagna vera e propria che, partendo da una notevole attività di sensibilizzazione e quindi una crescita della città e arrivando all'azione diretta nonviolenta durante i giorni della mostra, ha portato nel 89 all’ultima edizione della mostra. Durante le azioni di blocco ci eravamo dati l'obiettivo di impedire l’accesso alla mostra ma alcuni ci obiettavano che impedire a qualcuno di entrare era fargli una violenza, se non fisica, perché nessuno veniva toccato, almeno psicologica, perché li intimorivamo con la nostra presenza. Chi entrava era libero di passare ma per far quello doveva fare del male ai manifestanti camminando loro addosso e questa era vista da alcuni come una violenza psicologica nei suoi confronti, una violenza che poteva shockarlo, creargli disagio, poteva in qualche modo turbarlo. La considerazione era che quel disagio, quella sofferenza servivano a farlo riflettere sulla sofferenza incommensurabilmente maggiore creata dalle armi che andava a trattare nella mostra, l'azione non era fatta per evitare la sofferenza dei manifestanti (che per altro, se decideva di passare, aumentava), né per sconfiggerlo e danneggiarlo a vantaggio di chi gli impediva il passaggio, ma per far riemergere la sua umanità e per questo non era da considerare una violenza.
Molte volte si abusa del termine violenza: come dicevo prima, per superare un conflitto a volte è necessario lo scontro e questo vuol dire avere a che fare con una realtà sgradevole. Molte volte si accusa di essere violento un atteggiamento sanamente aggressivo e molte altre invece si giustificano e si assecondano comportamenti molto violenti magari solo perché non lo sono in maniera evidente. Bisogna riflettere ogni volta sulle singole situazioni. Per esempio alcuni ritengono che dare una patta sul sedere ad un bambino sia una violenza inaudita, ma penso che dipenda molto dalla situazione. Se lo sculaccione gli arriva per il fastidio dato da un genitore stanco che non ha voglia di dare tante spiegazioni è un conto, mentre se lo sculaccione arriva, magari sul pannolino, da un genitore serio e concentrato dopo che il bambino è scappato attraversando la strada senza guardare può essere invece un’ottima occasione per farlo riflettere senza conseguenze negative, per esempio, sul pericolo che lui ha corso. In quel caso la patta non è una vendetta, non è data per dare dolore, ma crea un canale di comunicazione che altrimenti difficilmente potrebbe essere altrettanto forte.
Per questo la nonviolenza non esclude di usare strumenti che, ad esempio, costringono l'avversario. Magari non lo costringono con la forza fisica ma, ad esempio, con la forza psicologica: ai tempi in cui a Genova c’era la campagna contro la Mostra Navale Bellica, che era una mostra-mercato di sistemi d'arma, i manfestanti impedirono l’accesso alla mostra ai visitatori costringendoli, nel caso avessero voluto entrare, a scavalcare i loro corpi. Tutto è iniziato nell'82: in dodici persone volantinarono davanti all'accesso della mostra. Di anno in anno si è creata una campagna vera e propria che, partendo da una notevole attività di sensibilizzazione e quindi una crescita della città e arrivando all'azione diretta nonviolenta durante i giorni della mostra, ha portato nel 89 all’ultima edizione della mostra. Durante le azioni di blocco ci eravamo dati l'obiettivo di impedire l’accesso alla mostra ma alcuni ci obiettavano che impedire a qualcuno di entrare era fargli una violenza, se non fisica, perché nessuno veniva toccato, almeno psicologica, perché li intimorivamo con la nostra presenza. Chi entrava era libero di passare ma per far quello doveva fare del male ai manifestanti camminando loro addosso e questa era vista da alcuni come una violenza psicologica nei suoi confronti, una violenza che poteva shockarlo, creargli disagio, poteva in qualche modo turbarlo. La considerazione era che quel disagio, quella sofferenza servivano a farlo riflettere sulla sofferenza incommensurabilmente maggiore creata dalle armi che andava a trattare nella mostra, l'azione non era fatta per evitare la sofferenza dei manifestanti (che per altro, se decideva di passare, aumentava), né per sconfiggerlo e danneggiarlo a vantaggio di chi gli impediva il passaggio, ma per far riemergere la sua umanità e per questo non era da considerare una violenza.
Molte volte si abusa del termine violenza: come dicevo prima, per superare un conflitto a volte è necessario lo scontro e questo vuol dire avere a che fare con una realtà sgradevole. Molte volte si accusa di essere violento un atteggiamento sanamente aggressivo e molte altre invece si giustificano e si assecondano comportamenti molto violenti magari solo perché non lo sono in maniera evidente. Bisogna riflettere ogni volta sulle singole situazioni. Per esempio alcuni ritengono che dare una patta sul sedere ad un bambino sia una violenza inaudita, ma penso che dipenda molto dalla situazione. Se lo sculaccione gli arriva per il fastidio dato da un genitore stanco che non ha voglia di dare tante spiegazioni è un conto, mentre se lo sculaccione arriva, magari sul pannolino, da un genitore serio e concentrato dopo che il bambino è scappato attraversando la strada senza guardare può essere invece un’ottima occasione per farlo riflettere senza conseguenze negative, per esempio, sul pericolo che lui ha corso. In quel caso la patta non è una vendetta, non è data per dare dolore, ma crea un canale di comunicazione che altrimenti difficilmente potrebbe essere altrettanto forte.
Etichette: nonviolenza, violenza
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