D.R. Carlo Schenone
schenone@arch.unige.it
La Difesa Civile Non Armata e Nonviolenta (DCNAN) è stata indicata dal Parlamento Italiano come modalità di attuazione del "sacro dovere di difesa della Patria" sancito dalla Costituzione Italiana[1]. Ma per concretizzare la scelta del Parlamento di assegnare all'Ufficio Nazionale per il Servizio Civile (UNSC) il compito della ricerca e sperimentazione relative alla Difesa Civile Non Armata e Nonviolenta è necessario affrontare una riflessione generale sul modello di difesa che lo Stato intende realizzare, cosa che normalmente si dà per scontata ma che tale non può essere, soprattutto dopo che tale modello è stato notevolmente modificato nel corso degli ultimi anni[2], pur senza un reale dibattito interno al Paese.
"Difendere la Patria" significa difendere i confini tracciati sulle montagne da scrupolosi topografi, la salute delle persone oppure anche il loro semplice benessere materiale? La Repubblica italiana deve difendersi dalle invasioni di eserciti nemici, dallo straripare dei popoli confinanti in cerca di sopravvivenza o dalle minacce derivanti dai processi produttivi e dai trasporti? Può difendersi con tutti i mezzi esistenti oppure deve rispettare criteri razionali, morali o etici? Siamo tutti chiamati a difenderci e a difendere chi e cosa ci sta attorno oppure solo alcuni devono o possono proteggere tutti gli altri? Si intende intervenire solo per contrastare le minacce o anche per prevenirle ed alleviarne le conseguenze?
Il significato
del termine "Difesa" dipende da ciò che si sceglie in relazione ai
valori che si hanno e al significato della vita che ne deriva. E' importante
che il concetto di difesa condiviso sia chiaro per arrivare a concretizzare una
difesa che raggiunga il suo scopo. Il modello di difesa italiano attuale, che
spesso si dà per ineluttabile, rispetta un concetto di difesa condiviso o è
semplicemente stato stabilito secondo il criterio di coloro che sono stati
incaricati di tale scopo e inconsapevolmente assecondato dal Parlamento?
Possono essere vari i motivi che spingono a contestare un modello di difesa, e quindi richiederne altri che siano più confacenti e che rispondano ad aspettative diverse. L'attuale modello di difesa, per esempio, in caso di conflitto aperto, non difende la vita dei cittadini che dovrebbe difendere. In caso di conflitto armato, le popolazioni sono sempre più a rischio, più che gli eserciti, senza considerare che anche i militari che compongono gli eserciti, se non sono mercenari, sono a tutti gli effetti tra i cittadini dei quali difendere la vita[3]. D'altra parte anche le ricchezze della popolazione non vengono difese perché le distruzioni annullano la ricchezza di regioni intere. Gli ultimi conflitti hanno reso sempre più evidente che non c'è esercito che riesca a preservare la vita e il benessere delle popolazioni che dovrebbe difendere dalle violenze del conflitto[4]. L'unica possibilità che ciò avvenga è nel caso in cui l'esercito agisca in territori ben lontani da quello e coloro che deve difendere. In altre parole solo gli eserciti di invasione possono portare benefici a coloro che dovrebbero beneficiare, ma possono fare ciò proprio quando non sono più eserciti di difesa ma di attacco, di rapina. Per di più, l'attuale sistema di difesa minaccia il benessere collettivo anche quando non ci sono conflitti espliciti, drenando ingenti risorse dai cittadini per disperderle in un mercato spesso gonfiato di servizi e beni destinati, quando va bene, allo smaltimento e alla distruzione senza essere mai stati utilizzati.
Diventa difficile pensare che una difesa militare possa essere fattore deterrente se crea più danni a chi afferma di difendere che a chi minaccia. Un tale modello di difesa non evita lo scontro ma al contrario rischia di generarlo, creando squilibri continui nella minaccia vicendevole tanto che scontri possono avvenire senza reali motivi ma solo per paura di una ipotetica minaccia altrui, per una supposta superiorità o perfino per puro caso o fraintendimento.
Fondamentalmente il modello di difesa attuale assicura esclusivamente la vittoria del più forte che non è necessariamente quello che, se può esistere una tale distinzione, si trova moralmente dalla parte del giusto. Dato, però, che la forza non è più conseguenza del numero delle persone impegnate nel conflitto, annullando anche quella parvenza di "democrazia" delle guerre che faceva vincere l'esercito più numeroso, gli attuali modelli di "difesa", in cui conta soprattutto la disponibilità di risorse tecnologiche, assicurano semplicemente la vittoria del più ricco.[5]
Ed essendo ormai evidente che questo sistema di difesa minaccia tutto ciò che dovrebbe difendere, il nuovo bene che si afferma di difendere è diventata la libertà. Ma questo modello di difesa è quanto di più illiberale, prendendo in ostaggio persone e informazioni e negando i diritti primari, sempre in nome del principio sacrosanto della difesa. Se poi si considera che le strutture militari cui viene affidata la difesa sono le principali artefici degli attacchi alle istituzioni democratiche, risulta evidente che non sono loro che possono difendere le istituzioni di un paese.
Tutto quello che questi modelli di difesa dicono di difendere in realtà lo mettono in pericolo.
Allora è necessario fare una riflessione su quali siano le aspettative per una difesa, almeno sui cinque punti fondamentali: Chi, da cosa, come, con chi e quando difendere? Le scelte su questi argomenti necessariamente escluderanno alcuni modelli di difesa evidenziandone altri.
Nel seguito, quindi, saranno prese in considerazioni tutte le opzioni di difesa senza distinzioni di merito o di valore, una semplice carrellata di quali siano, nei diversi modelli di difesa presenti nel mondo, i criteri tenuti in considerazione.
Per definire "cosa" difendere c'è innanzi tutto da tenere in
considerazione il concetto di "sacro dovere di difesa della Patria".
Nulla vieta di estendere il sacro dovere di difesa ad altro oltre la Patria, ma
sicuramente, parlando di difesa in Italia è necessario fare i conti con il
dovere di difesa sancito dalla Costituzione. Il concetto di Patria, infatti,
può riferirsi a "cose" anche molto diverse tra loro, ad uno spazio,
un territorio, a delle persone, a dei beni, delle ricchezze.
La prima concretizzazione del concetto di Patria, quella più tipica, sono
i confini nazionali. In tale concezione, difendere la Patria significherebbe
difendere un territorio, uno spazio fisico, il "suolo patrio".
Considerando, però, che le relazioni internazionali tendono a configurare
sempre nuove aggregazioni, si potrebbe considerare "suolo patrio"
tutto lo spazio che rientra all'interno dei confini non solo di una nazione ma
di qualsiasi nazione con cui ci si federa o anche solo si fanno alleanze. Le
ultime guerre mondiali hanno coinvolto così tante nazioni proprio sulla base di
un tale principio che viene codificato anche nel trattato NATO, anche nel suo
ultimo aggiornamento che ha ulteriormente esteso i motivi di attivazione degli
eserciti degli stati membri [6].
L'integrazione sempre più stretta tra i paesi europei, a cui si collega lo
sviluppo di un sistema di difesa europeo, allarga in maniera ancora più ampia i
confini del "suolo patrio" che l'Italia potrebbe essere chiamata a
difendere.
Ragionando più in generale, però, il territorio da difendere potrebbe
anche restringersi allo spazio vitale di ogni singola persona quasi un contesto
fisiologico necessario alla sopravvivenza, quello che molti animali intendono
come proprio territorio. Come abbiamo detto, però, l'accezione più comune si
riferisce al concetto di territorio più da un punto di vista sociale che
fisiologico, si può intendere come la struttura organizzativa delle
popolazioni, la loro organizzazione sociale, soprattutto da un punto di vista
amministrativo, storicamente rappresentato, come abbiamo visto prima, dai
confini geografici di una amministrazione (p.e. il Comune, la Regione, lo
Stato). Questo è sicuramente un criterio semplice in quanto rende semplice
la distinzione tra quello che è con me, l'amico con cui ci si difende, e quello
che è contro di me o è diverso da me, il nemico da cui difendersi.
Ma le strutture organizzative sociali potranno essere identificate sulla
base di strutture politiche, più che da linee di confine, intese come le
istituzioni decisionali, gli organi di governo che amministrano una popolazione
(p.e. un Parlamento o un Consiglio Comunale). Difenderli significa dare
loro la possibilità di operare, prendere decisioni ed attuarle, come avviene in
alcuni paesi del Centro America in cui consigli locali continuano ad operare in
parallelo alle amministrazioni centralizzate, imposte dal governo,
sostituendole funzionalmente e rendendole quindi inefficaci.
Da un altro punto di vista, i territori che si intendono difendere
possono essere quelli definiti dalle lingue e culture delle popolazioni che
abitano in un dato spazio, i loro modi di vivere, le loro usanze o ancora di
più le loro lingue. In questo caso i confini diventano molto meno definiti, si
intersecano e si mescolano e ciò richiede delle mediazioni, proprio perché una
linea sul terreno definisce un dentro e un fuori ma ciò non può essere fatto
facilmente per le culture o le lingue, come è evidente in molte zone di confine
(p.e. l'Alto Adige-Sudtirol o il Nord Irlanda). In alcuni casi i
confini potranno essere intesi come distinzioni di regioni culturali o
linguistiche (p.e. i Paesi Baschi, il Kurdistan o i Territori Occitani),
in altri anche questo sarà impossibile come nel caso di popolazioni nomadi (p.e.
i Rom).
Analogamente si può pensare di difendere non tanto uno spazio quanto un
insieme di beni. In tal caso bisogna ulteriormente distinguere se si intende
difendere il benessere, la pace, intesa come lo "shalom", delle
popolazioni o la ricchezza economica oppure, ancora, i privilegi conquistati,
cioè quello che si è riusciti ad ottenere col proprio lavoro o anche con azioni
di rapina, come gli eserciti coloniali facevano ancora nel secolo scorso, non
ultime le truppe inglesi alle isole Malvinas. Si può scegliere di difendere le
ricchezze appartenenti a chi si difende magari anche in quantità e forma che
varia e preservarle dagli attacchi del tempo e degli uomini (p.e. le
abitazioni e gli oggetti di vita quotidiana delle persone o le bellezze
naturali e culturali, ma anche le materie prime, gli impianti industriali, le
infrastrutture del proprio territorio). Queste ricchezze però potrebbero
anche non essere necessariamente dentro al limitato spazio geografico in cui si
vive, ma possono trovarsi in altri territori, a volte perfino fuori da
qualsiasi collocazione geografica (le materie prime vitali provenienti
dall'estero, le organizzazioni produttive multinazionali o pacchetti azionari
operanti sul mercato globale).
E' in base a questo criterio che il modello di difesa italiano prevede la
possibilità di intervenire fuori dai confini della Patria per difendere i suoi
interessi economici. Si considera Patria da difendere qualsiasi attività che
porti ricchezza al paese o anche solo un "flusso di risorse vitali" [7].
Altro punto di riferimento dei modelli di difesa possono essere le
persone o più in generale le popolazioni.
In alcuni casi la difesa si limita a considerare solo i soggetti più
deboli, che possono essere deboli da un punto di vista fisico o da un punto di
vista sociale, come nel caso di alcuni servizi sanitari nazionali o di
assistenza sociale (p.e. gli anziani, i nullatenenti). In tale caso non
ci si interessa di difendere tutta una popolazione ma solo di non abbandonare
coloro che non avrebbero mezzi per difendersi. Tutti gli altri dovranno
arrangiarsi con le loro forze. Tale approccio difficilmente configura una
difesa della Patria, che più coerentemente potrà essere associata alla difesa
dell'intera popolazione, potendo intendere come popolazioni sia il complesso
delle singole persone che le singole etnie. Nel primo caso sarà necessario
stabilire se sono soggetti da difendere solo coloro nati all'interno di un
confine (p.e. i cittadini o i sudditi per nascita) o, altrimenti,
considerare appartenenti alla Patria tutti coloro che in tale confine ci vivono
(p.e. i residenti, gli abitanti, gli immigrati, i rifugiati). Da questo,
per esempio, cambierà conseguentemente il comportamento nei confronti dei
migranti [8].
In questi caso chiunque sarà considerato soggetto da difendere mentre nel caso
delle etnie, quindi aggregazioni umane (p.e. gruppi religiosi, gruppi
linguistici, gruppi razziali), si può arrivare a minacciarne altre che condividono
uno stesso territorio invece di accettare una contaminazione vicendevole che
permetta di inglobare tra loro le diverse etnie in maniera rispettosa dei
valori e delle ricchezza apportate da ognuna.
Quest'ultima considerazione ci porta a considerare un confine più ampio
del concetto di Patria che allo stesso tempo è forse quello minimale.
Rifacendosi alla risposta che Albert Einstein fornì a chi gli chiese, al
momento del suo arrivo negli Stati Uniti, di che razza fosse, il popolo a cui
si può fare riferimento per stabilire chi deve essere difeso può comprendere
tutta la "razza umana". E ciò che deve sicuramente essere difeso ai
membri di tale popolo sono i diritti che da tale appartenenza derivano. Come
conseguenza, il modello di difesa potrà farsi carico di difendere i diritti
umani di qualsiasi essere umano, indipendentemente da qualsiasi confine fisico
o sociale (p.e. il diritto alla vita, all'alimentazione, alla libertà).
E' sulla base di questa scelta che un modello di difesa potrà prevedere azioni
di ingerenza umanitaria, dalle iniziative diplomatiche e negoziali
all'interposizione non armata alla "guerra preventiva". Viste le
ultime guerre scatenate anche con la motivazione della difesa dei diritti
umani, sarà ovviamente discriminante decidere con che mezzi tali diritti
dovranno essere difesi.
Tutte queste sono questioni che sicuramente
portano a delle distinzioni riguardo al modello di difesa da adottare.
COSA
|
|
||
Territori |
spazi vitali
personali |
|
|
strutture sociali
organizzate |
amministrative |
||
politiche |
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zone linguistiche |
|
||
ambiti culturali |
|
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Beni |
benessere e
serenità |
beni essenziali (casa, vestiti) |
|
beni naturali |
|||
beni culturali |
|||
risorse
economiche |
materie prime |
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infrastrutture |
|||
impianti |
|||
privilegi
economici |
concessioni |
||
patrimoni finanziari |
|||
Popolazioni |
le persone |
deboli |
fisicamente |
socialmente |
|||
originarie |
|
||
abitanti |
|
||
le etnie |
culturali |
|
|
razziali |
|
||
diritti umani |
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Affrontando il tema del "sacro dovere di difesa della Patria"
il primo tipo di minaccia cui vien fatto di pensare è quella derivante da un
esercito nemico.
Ma non solo gli eserciti stranieri minacciano ciò che si ritiene la
Patria. Oramai è luogo comune considerare il terrorismo minaccia di tutta la
collettività ma non da meno sono le organizzazioni criminali, anche
internazionali. Ultimamente, poi, gli attacchi volontari possono arrivare anche
da organizzazioni economiche come holding finanziarie o multinazionali che sono
in grado di mettere a repentaglio le economie di interi paesi anche in maniera
rigorosamente legale.
Per altro, minacce possono venire dall'interno allo stesso Stato, come
nei casi di golpe perpetrati dalle forze armate o da mercenari, ma anche dalle
forze politiche che ne sono parte costituente, come nel caso in cui chi
dovrebbe difendere la popolazione dalla malavita organizzata ne è partecipe e
ottiene l'elezione col suo aiuto o quando la corruzione dissangua il benessere
economico di un paese. La Patria può quindi difendersi da tutte le minacce che
persone, gruppi e organizzazioni potrebbero attuare nei sui confronti.
Riferendosi inizialmente ai confini dello Stato, il concetto di difesa
diffusosi nella nostra cultura nei secoli scorsi non ha mai preso in
considerazione altre minacce se non quelle volontarie. Solo negli ultimi
decenni, dall'alluvione del Polesine e dalla tragedia del Vajont in Italia, si
è andata formando la coscienza che la collettività deve anche difendersi in
maniera non semplicemente spontaneistica da ciò che la minaccia sia per cause naturali
come alluvioni, terremoti, valanghe e tempeste che per colpe involontarie degli
uomini come esplosioni, allagamenti, crolli, inondazioni, incendi e frane.
Questo processo ha portato, in seguito ai terremoti del Friuli e dell'Irpinia,
al costituirsi del servizio di Protezione Civile. Solo per alcuni tipi
specifici di minacce, come per quella sanitaria, la collettività, soprattutto a
livello locale, aveva in qualche maniera in passato provveduto a dotarsi di
strutture collettive di difesa, per esempio con ospedali ed ambulanze e, solo
in tempi successivi, con un servizio sanitario nazionale. Anche altre minacce
sono state affrontate in maniera organizzata localmente con squadre di
volontari che in seguito, a volte, sono state coordinate in un servizio nazionale,
per esempio quella degli incendi con i pompieri o quella delle tempeste,
soprattutto nei mari del nord Europa, con le guardie costiere. Per il resto
ognuno doveva provvedere da solo o con la solidarietà che sorgeva spontanea nel
momento dell'emergenza.
In molte situazioni ci possono essere interessi contrari alla difesa da
un certo agente di minaccia che ostacolano la strutturazione di tali difese. Se
ci si difende da minacce volontarie umane coloro che vedono un vantaggio
indiretto nell'attuazione delle minacce, magari per connivenza con chi
minaccia, presumibilmente di rifiuterà di collaborare alla difesa da queste
minacce se non arriverà ad ostacolare tale difesa. Una difesa da minacce umane
involontarie, o, al limite, colpose, può essere ostacolata dal fatto che c'è
chi ha più vantaggio individuale rispetto a quanto è il rischio, e può anche
non essere solo una persona ma un ente ad avere più vantaggio che rischio dalla
concretizzazione di queste minacce. Per esempio, in questioni di difesa ambientale,
il vantaggio per il singolo individuo che specula sui possibili rischi è
sicuramente superiore allo svantaggio che potrà subire se la minaccia si
concretizza, come è risultato più che evidente dalle vicende del Vajont o di
Bophal. Nel caso di minacce naturali, la difesa può essere osteggiata se c'è
più vantaggio individuale ad impiegare risorse in altri contesti che nella
prevenzione del rischio collettivo, come avviene per le risorse da dedicare
alla ricerca sulle malattie che vengono sempre più difficilmente reperite,
tanto da costringere gli enti di ricerca a ricorrere alla solidarietà dei
telespettatori, mentre superiori risorse vengono regolarmente allocate per
l'acquisto di sistemi d'arma. Se, al contrario, si lasciasse alla pubblica
beneficenza la raccolta dei fondi per l'acquisto di attrezzature militari e si
finanziasse la ricerca medica, le risorse supplementari raccolte sarebbero
probabilmente molti inferiori.
Questi ultimi sono tutti fattori da tenere in
considerazione nell'organizzazione della difesa.
DA COSA |
chi ostacola la difesa |
|
Minacce
volontarie esterne |
forze armate |
chi ha interesse indiretto |
terroristi |
||
organizzazioni
criminali |
||
organizzazioni
economiche |
||
Minacce
volontarie interne |
forze armate |
chi attua la minaccia e ne ha profitto diretto |
forze politiche |
||
Minacce
involontarie |
esplosioni |
chi ha più vantaggio personale di quanto sia lo
svantaggio collettivo |
inondazioni |
||
crolli |
||
incendi |
||
frane |
||
Minacce naturali |
epidemie |
chi ha vantaggio dall'impiego di risorse in altri
ambiti |
alluvioni |
||
valanghe |
||
terremoti e
eruzioni |
||
tempeste |
Molte sono le possibili scelte riguardo alla modalità con cui si intende
affrontare le minacce. Queste diverse scelte dipendono in gran parte dal
livello di preparazione che si intende attuare in vista della minaccia e dal
livello di danno che si ritiene ammissibile cagionare all'avversario.
Ci si baserà semplicemente sulla difesa spontanea se si ritengono le
capacità individuali di autodifesa sufficienti ad evitare le minacce, lasciando
eventualmente al momento dell'emergenza l'organizzazione di una difesa
collettiva. Si può quindi anche scegliere di non organizzare preventivamente
una difesa, se si ritiene sufficiente la capacità istintuale di reazione alle
avversità, per cui in ogni momento ogni essere umano è capace autonomamente,
senza particolari preparazioni, di reagire ad una situazione di minaccia.
Di solito a questa ipotesi si affianca l'intenzione di prevenire le
minacce tramite una preparazione culturale ed una educazione della popolazione.
L'impiego di risorse sarà limitato e in caso di emergenza, oltre che alla
capacità di difesa istintuale si potrebbe contare sulle conoscenze acquisite a
livello culturale. Queste scelte, soprattutto per quanto riguarda le minacce
umane, evitano di affrontare, almeno in un primo tempo, delicati problemi etici
legati all'uso o meno della violenza. Quindi, se si ritiene sufficiente una
preparazione culturale generalizzata, considerando che basta essere educati in
un certo contesto per evitare la concretizzazione delle minacce, ci si può
limitare ad utilizzare una più o meno limitata quantità di risorse per
prevenire culturalmente le emergenze, lasciando alla reazione istintiva dei
singoli la risposta nel caso la minaccia prenda corpo. Ciò, per esempio,
potrebbe valere, per quanto riguarda la protezione civile, concependola come
una educazione alla prevenzione, insegnando nelle scuole ad evitare
atteggiamenti rischiosi, come, per la difesa dalle minacce umane, tramite una
educazione alla pace e alla risoluzione dei conflitti personali, sociali e
internazionali.
Ritenendo però necessario anche preparare delle azioni di difesa,
bisognerà organizzare concretamente una difesa utilizzando anche delle risorse
specifiche, distogliendole da altri usi, impiegando risorse umane e materiali
non solo per la prevenzione ma anche per l'educazione, la formazione e la
preparazione della difesa, e, quando necessario, per la reazione alla minaccia,
organizzando delle strutture che preparino e mantengano efficace tale difesa e
che siano in grado di attivare una difesa efficace al momento della
concretizzazione della minaccia. Sarà necessario predisporre una organizzazione
che gestisca e mantenga tali risorse, anche addestrando coloro che verrebbero
direttamente coinvolti nella difesa, prevedendo le strutture di allerta e
l'attivazione della difesa al momento dell'emergenza. Un'altra maniera di
difendersi è, quindi, organizzando preventivamente una forza di intervento.
La scelta di quali interventi possono essere leciti richiede, per altro,
un ulteriore livello di discernimento. La scelta della modalità di difesa da
minacce umane è quella che più pesantemente implica condizionamenti di tipo
etico, richiedendo una contrapposizione ad altri esseri umani. Per scegliere in
quali maniere ci si può difendere serve distinguere varie forze, vari
atteggiamenti, diversi motivi.
Nel caso di minacce umane volontarie, infatti, si può ipotizzare di
difendersi senza violenza, senza prevaricazione, evitando di creare danno a sé
e all'avversario oppure mettendo anche a rischio l'incolumità dell'avversario.
Nel primo caso si ricorre a strumenti che rispettano la libertà e la vita
anche di chi ciò non fa. E' il principio base dello "Stato di
Diritto". All'interno di questo logica rientrano tutti i sistemi di
regolamentazione, legislazione, mediazione ma anche gli interventi di
interposizione internazionale. Il sistema legislativo e giudiziario dovrebbero
avere proprio lo scopo di regolare la vita collettiva difendendo la società da
abusi e prevaricazioni. Anche in questo caso bisogna capire quali strumenti
possano essere utilizzati per far rispettare la regolamentazione. Anche la
carcerazione può essere considerata violenza, a maggior ragione se viene concepita
non solo come privazione della libertà di movimento ma come strumento di
repressione se non di tortura. In ogni caso le minacce vengono risolte per
l'intervento esterno di altri che si coinvolgono nel conflitto. Gli interventi
di interposizione, soprattutto quelli attuati nel contesto di organismi
internazionali, dovrebbero rappresentare una maniera di agire l'ingerenza
umanitaria senza che questa possa configurarsi come forma di occupazione, è una
azione di contrasto a minacce, anche se rivolte ad altri.
In generale, però, si prevede anche la classica risposta violenta per
cui, pur di difendere gli interessi minacciati, si ritiene un diritto
danneggiare se non distruggere l'avversario, quello che in una conflitto
interpersonale è la "legittima difesa". La scelta di usare la
violenza per difendersi dagli attacchi altrui può però essere giustificata solo
nel caso in cui si ritenga di avere una forza superiore a coloro il cui attacco
si intende evitare, in modo da poter causare loro un tale danno da indurli a
interrompere l'attacco prima di soccombere.
Ma se si intende "difendere" l'interesse e il benessere
materiale anche a scapito di quelli degli avversari, può diventare ragionevole
non limitarsi a respingere gli attacchi altrui ma arrivare ad attaccare gli
avversari nelle situazioni in cui, per quello che si diceva prima, si sa di
essere più forti. Se si ritiene il proprio interesse superiore al diritto
altrui e soprattutto ci si sente i più forti, si può essere tentati a
"difendere i propri interessi" anche attaccando gli interessi altrui.
In altre parole, si ritiene che l'interesse proprio non sia limitato
dall'interesse altrui per cui lo si ritiene superiore e non equivalente a
quello degli avversari ed il "difenderlo" significa accrescerlo il
più possibile. Ciò, quindi, farebbe rientrare l'aggressione nel suo concetto
opposto, quello di difesa. In tale caso, infatti, il termine difesa è
volutamente forzato ma tale scelta è alla base di buona parte dei "modelli
di difesa" attualmente utilizzati dagli eserciti, soprattutto occidentali.
Le due ipotesi di uso della violenza, per altro, possono integrarsi in
quanto una difesa violenta permette abbastanza facilmente di essere trasformata
in sistema di attacco. Ciò non è immediato perché, per esempio, la costruzione
di una portaerei, che è una tipica arma di attacco, richiede tempo e notevoli
risorse, ma un modello di difesa violenta è un ottimo modello di base per un
modello aggressivo. Si tratterà di integrare il primo con gli strumenti e le
metodologie utili all'aggressione, come è avvenuto negli ultimi anni in Italia
con il cambio di modello di difesa armata.
E' utile aggiungere una riflessione riguardo all'utilizzo della violenza
per affrontare una minaccia umana, un conflitto.
Nel caso di due contendenti, il ricorso alla violenza può essere
giustificato, prescindendo dagli aspetti etici, solo se si ritiene di essere in
grado di inferire più dolore e distruzione di quanto possa fare l'avversario,
oppure di essere in grado di sopportarne di più dell'avversario per cui
l'avversario alla fine recederà per primo dal proseguire il conflitto, a
prescindere da chi attacca e chi difende. Altrimenti scegliere una modalità
violenta di risoluzione del conflitto è decisamente autolesionistica, dettata
più dalla disperazione o dalla necessità di salvaguardare la propria dignità,
come ultimo valore rimasto, che dalla razionalità, essendo presumibilmente la
rinuncia a difendersi una soluzione meno dannosa. Una difesa violenta ha senso
solo nel caso che qualcuno di più debole ci attacchi. Ma in tal caso sarebbe
l'attaccante a non aver ragione di attaccare, se non per una scelta
masochistica. Si può quindi capire che uno scontro violento ha senso solo nel
caso in cui entrambe le parti in conflitto siano convinte, o sperino, di essere
superiori in forza o in capacità di sopportazione a meno che uno dei
contendenti, non vedendo possibilità di soluzione del conflitto, non decida di
autodistruggersi, per disperazione o per dignità, cercando di distruggere
l'avversario, come spesso testimoniano gli attacchi suicidi che sempre più
frequentemente insanguinano il Medioriente.
Proprio partendo da questo ragionamento, si può considerare che
l'evoluzione di un conflitto in forma violenta deriva innanzitutto da due
possibilità: dalla sopravalutazione delle proprie forze di offesa o di
sopportazione da parte di entrambe i contendenti oppure dalla disperazione di
chi reagisce all'attacco non avendo più niente da salvare e quindi da perdere.
Altrimenti sembrerebbe più razionale l'alternativa di una sottomissione
all'attaccante che permetta di preservare almeno in parte la propria condizione
di vita, la propria libertà, il proprio benessere. Eppure quasi sempre la
scelta di adottare una strategia violenta per rispondere ad una minaccia umana,
deriva dalla rimozione, in qualche misura patologica, dei danni che nel
conflitto si ricevono, amplificati dalla scelta di rispondere in maniera
violenta alla minaccia.
Ma nel caso in cui si sceglie di evitare la violenza, invece, anche chi
ritiene di avere una forza inferiore può ragionevolmente provare a contrastare
la minaccia altrui. Non mettendo a repentaglio l'incolumità dell'avversario ma
riconoscendo i suoi diritti leciti, non si induce in lui la paura di perdere,
soprattutto nel caso in cui la minaccia non derivi da una palese intenzione di
prevaricazione. In altre parole l'avversario non dovrà "difendersi
preventivamente", cioè attaccare prima di essere attaccato, innescando il
meccanismo deflagrativo visto prima. Ovviamente il problema si sposta nel trovare
azioni che non siano violente ma che inducano un cambiamento nella situazione.
Per fare in modo di evitare la situazione di fraintendimento prima
presentata in cui entrambe le parti pensano di avere una forza superiore, per
cui il conflitto deflagra, chi si sente minacciato di solito cerca di rendere
edotti tutti gli avversari delle proprie possibilità di difesa in modo da
disincentivare il loro interesse ad attaccare. E' il meccanismo della
deterrenza che funziona sia nel caso si adotti una difesa violenta che una
difesa che rifiuti l'uso della violenza. Nel primo caso ad inibire lo scontro è
soprattutto la convinzione che avrebbe conseguenze devastanti per chi attacca,
nel secondo caso, invece, sarebbe semplicemente la convinzione di non riuscire a
trarre un vantaggio dall'attacco, sprecando inutilmente delle risorse.
La deterrenza, però, si ottiene solo se realmente
si dimostra di essere sufficientemente forti, altrimenti, si rischia di
ottenere l'effetto opposto, inducendo l'avversario a ritenersi più forte e
quindi invogliandolo ad attaccare. La "deterrenza violenta" ha, però,
un ulteriore effetto destabilizzante: dimostrarsi più forti degli altri può
impaurirli facendo loro temere di essere minacciati, inducendoli ad attaccare
per primi per cercare di avere il vantaggio iniziale nello scontro oppure
ritenendo di essere in tale stato in inferiorità da non avere niente da perdere
più di quello che lo scontro farebbe perdere.
COME |
Perché |
|
Istinto |
Non prepara
una difesa |
- si ritiene che le capacità individuali di
autodifesa siano sufficienti. |
Cultura |
Cerca di prevenire il danno da parte di altri |
- si
ritiene basti una preparazione culturale per evitare il sorgere dei conflitti |
Azione diretta nonviolenta |
Cerca di
impedire il danno senza procurarlo |
- si ritiene necessario preparare una azione
di contrasto alla minaccia |
Violenza |
Cerca di
danneggiare chi arreca danno |
- si considera solo il proprio interesse
anche a rischio dell'incolumità altrui |
Aggressione |
Cerca di
danneggiare chi non arreca danno |
- si ritiene il proprio interesse superiore
al diritto altrui |
Il punto successivo riguarda la scelta di chi difende. Il problema è che
chi difende può avere vari motivi e varie spinte.
La difesa da parte di pochi professionisti (p.e. l'esercito Italiano,
la polizia, i pompieri) è desiderata da chi vuole professionalità e
preferisce che ci sia una specifica preparazione, molto raffinata, riguardo a
questi problemi. Il vantaggio della difesa basata su pochi professionisti è che
si usano poche risorse umane, anche se in effetti servono risorse materiali che
sopperiscano al numero limitato di addetti. Dovendo delegare a poche persone un
compito così delicato come la difesa di tutta una popolazione serve fornirli di
strumenti molto potenti e tecnologicamente avanzati la cui vendita implica
notevoli guadagni per chi li produce e commercializza. Anche per questo avere
una organizzazione in cui pochi professionisti curano la difesa della
collettività è conveniente per chi fornisce tali strumenti sofisticati. Per
altro, essendo necessaria una alta professionalità nei pochi difensori, costoro
sono tra i fautori di tale tipo di scelta traendone un notevole vantaggio
economico. Questi pochi hanno, per altro, tutto il potere di dare o levare
sicurezza agli altri: Dare e levare sicurezza è una questione estremamente
delicata nella vita degli uomini, fin dalla loro nascita, ed è un rapporto di
potere molto forte del cui abuso spesso non si tiene sufficientemente conto,
fino al giorno in cui l'esercito occupa il parlamento o la polizia attacca i
manifestanti inermi. Assegnare tale potere a pochi crea uno squilibrio che fa
timore a chi non si fida della fedeltà al bene comune di costoro, sia che
intendano abusarne sia che, semplicemente, lo considerino in subordine al
proprio, rinunciando a difendere se ciò mette a repentaglio la loro stessa
sicurezza.
Una parziale evoluzione di tale modello che sta sempre più spesso
riprendendo campo è quella di una difesa in cui nella fase di emergenza si ricorre
a personale specializzato non alle dipendenze dirette dello Stato (p.e. i
contractors in Iraq, gli istituti di vigilanza). Da un certo punto di vista
questo modello, basato un tempo sui mercenari e che teoricamente, ma spesso non
praticamente, potrebbe anche permettere una economia di gestione, rende ancora
più debole la struttura da un punto di vista della detenzione del potere.
Per cercare di risolvere, almeno parzialmente, tali problemi, in alcuni
modelli di difesasi è scelto che le poche persone delegate alla difesa lo
fossero a turno tra tutta la popolazione (p.e. l'esercito in Svizzera).
Ciò consente un minore accentramento del potere e riduce l'interesse degli
addetti i quali lo saranno tendenzialmente solo a tempo parziale. Questa
scelta, per altro, riduce la possibilità di acquisire una alta professionalità
tra gli addetti e richiede ugualmente che ci sia almeno una struttura
dirigenziale stabile che in definitiva continuerebbe a detenere il potere di
dare o levare sicurezza, anche se in misura decisamente minore.
Un'altra scelta presente negli attuali modelli di difesa prevede di
coinvolgere alcuni stabilmente o a turno e, in emergenza, tutti. I pochi
professionisti coinvolti stabilmente si limitano a mantenere la struttura di
addestramento, che si svolgerà in fasi successive per tutti, e di allertamento.
E' il modello classico della difesa popolare che può prevedere un
coinvolgimento della popolazione volontario (p.e. la Protezione Civile
italiana) o obbligatorio (p.e. l'esercito di leva). Questo modello è
auspicato da chi non vuole delegare completamente la propria sicurezza ad altri
ma esserne costantemente responsabile, pur permettendo di assicurare un buon
livello di difesa in caso di emergenza. Questo modello permette di non tenere
impiegate troppe risorse, perché solo alcuni sono costantemente impegnati, pur
conservando a tutti il potere della propria difesa, mantenendo l'efficacia,
soprattutto attuando una rotazione tra gli addetti.
Una ultima possibilità potrebbe prevedere una mobilitazione costante di
tutti. Può essere richiesta per avere la corresponsabilizzazione di tutti nella
vita sociale da chi si aspetta che tutti si sentano coinvolti in quello che
succede nella vita di tutta la popolazione. In questo modello tutti sono
chiamati costantemente all'autodifesa, ognuno è responsabile nel bene e nel
male della difesa del bene collettivo, e potrebbe essere scelto se non si
ritiene fondamentale una preparazione o, contrariamente, si ritiene utile un
utilizzo notevole di risorse per la preparazione continua di un grande numero
di soggetti.
CHI |
chi lo preferisce |
perché |
vantaggi |
Pochi |
i pochi addetti |
detengono il potere di dare e levare sicurezza,
lavoro ben retribuito |
poche risorse umane |
chi fornisce strumenti sofisticati |
forti guadagni |
||
chi richiede professionalità |
maggiore preparazione |
||
Pochi a turno |
chi fornisce strumenti sofisticati |
forti guadagni |
maggiore distribuzione del potere |
i pochi addetti stabili |
detengono il potere di dare e levare sicurezza |
||
chi vuole l'efficienza |
maggiore preparazione con minore accentramento
di potere |
||
Alcuni a turno, in emergenza tutti |
chi non vuole delegare |
paura di abusi |
fa usare meno risorse umane |
chi vuole l'efficienza |
maggiore preparazione con minore accentramento
di potere |
||
Tutti sempre |
chi non vuole delegare |
paura di abusi |
non delegare il proprio potere, tutti chiamati
all'autodifesa |
chi vuole la corresponsabilità |
per condividere il potere |
||
chi non vuole una preparazione |
per non avere egemonie di pochi |
Un aspetto importante da tenere in conto nella classificazione dei modelli di difesa riguarda anche i tempi in cui i diversi modelli cercano di rispondere alle minacce.
La difesa può attivarsi in fase preventiva, durante la quale la minaccia può essere già presente ma non è ancora attuata. In questa fase è possibile operare per ridurre l'intensità della minaccia ed evitare che arrivi a scatenare le sue conseguenze più nefaste. Durante questo periodo è per altro molto più facile attrezzare le strutture di difesa per l'eventualità dell'emergenza e formare il personale che potrebbe essere chiamato a fronteggiare la minaccia. Purtroppo in questo periodo la minaccia non è ancora esplicita e spesso non viene percepita o per lo meno non viene percepita come pericolosa. Ciò fa sì che spesso questa fase venga trascurata, anche contando su una provvidenziale dissoluzione autonoma o non attivazione della minaccia.
Viene poi la fase dell'emergenza. E' la fase di cui solitamente ci si prende più cura proprio per la drammaticità della situazione e in cui le capacità di autodifesa delle persone più facilmente si attivano. Durante questa fase maggiori sono i danni e il dolore provocati dall'attuazione della minaccia.
Una volta la minaccia (sia esso un conflitto aperto, un incendio o una epidemia) ha generato i suoi danni, anche la fase di recupero può essere considerata parte dei tempi della difesa, soprattutto se questa funzione deve cominciare quando l'emergenza è ancora attiva. Tenere in considerazione nella difesa anche questa fase permette di ridurre notevolmente i danni seguenti alla fase di emergenza, anche se è difficile che sia sufficientemente tenuta in considerazione quando la minaccia non è ancora esplicita, perfino meno che per la prevenzione.
QUANDO |
Cosa fa |
Prevenzione |
evita i danni |
Emergenza |
blocca i danni |
Recupero |
riduce e allevia i danni |
Riguardo a tutti questi
aspetti, da ciò che si decide, deriva anche una differenza del modello di
difesa da adottare. Ovviamente tali scelte diventano indirettamente delle
scelte relative alla struttura delle relazioni delle persone che intendono
adottarla andando ad influire notevolmente anche sulla forma e sul
funzionamento dell'istituzione statuale che pratica la difesa.
Attualmente, per una
stratificazione storica, le scelte differiscono da minaccia a minaccia. Per
esempio per le minacce volontarie la scelta è quella di fare difendere il
territorio e il benessere economico da pochi professionisti con la violenza se
non con l'aggressione, con una limitata attenzione alla difesa delle
popolazioni e delle istituzioni. Per le minacce naturali e quelle involontarie
si è scelto di usare un modello di azione diretta delegato a pochi
professionisti con il supporto di tutta la popolazione durante le emergenze,
come durante le epidemie in cui la cura viene rimandata alle famiglie o in
occasione di alluvioni e terremoti durante i quali vengono mobilitati i
volontari per il soccorso, soprattutto a lungo termine.
Cercando di definire le
linee guida della Difesa Civile Non Armata e Nonviolenta (DCNAN) prevista dalla
legge 230/1998 è importante comprendere che tale definizione rimanda
necessariamente ad una struttura istituzionale adatta a svolgere un compito che
attualmente almeno in parte è svolto da altre strutture istituzionali. In altre
parole, serve comprendere di cosa può interessarsi un modello di difesa che sia
civile, non armato e nonviolento e quali siano le funzioni che può svolgere. Si
tratterà poi di procedere alla sua realizzazione che dovrà necessariamente
passare per fasi successive che permettano di integrare ciò che già esiste e
che ancora serve e di sviluppare tutto ciò che serve ma non è ancora presente,
predisponendone lo studio e la sperimentazione. Sarebbe un grave errore focalizzarsi
solo su questo ultimo aspetto, anche perché si rischierebbe poi di non
predisporre un sistema organico e coerente che sia consistente all'interno
della società. D'altra parte sarà necessario in prima istanza impegnare le
risorse disponibili ad affrontare gli aspetti e le esigenze che finora hanno
avuto minore o nulla attenzione.
Vediamo quali potrebbero
essere le scelte da adottare per giungere ad una DCNAN.
Il modello di DCNAN dovrebbe prevedere di difendere i deboli, aiutare chi
non ha la capacità di difendersi, ma difendere anche le popolazioni, con le
loro culture autonome che devono poter coesistere con la salvaguardia della
cultura presente su un territorio, con ricchezza di scambio di diversità nel
rispetto di alcuni principi fondamentali comuni. E' giusto che la popolazione
residente su un territorio veda rispettati i propri principi fondamentali ma
anche la propria cultura, pur accogliendo la ricchezza di culture diverse,
anche se la difesa dei diritti umani potrebbe richiedere di imporre la
cessazione di certe usanze che si ritiene non li rispettino. Tale modello
dovrebbe anche difendere lo spazio vitale nelle sue ricchezze, anche culturali,
rendendole disponibili a chiunque voglia farne un uso rispettoso e non
esclusivo, e le organizzazioni decise autonomamente da tutti coloro che
risiedono sul territorio per nascita o per scelta. La Patria da difendere sarà
principalmente costituita da tutte le persone che vivono in un territorio, con
le ricchezze naturali, il loro spazio vitale, la loro cultura, le loro usanze,
la loro organizzazione gestionale e decisionale. In altri termini la propria
Patria è il proprio popolo e il territorio in cui si vive e a cui si è legati
dalla solidarietà che deriva dalla convivenza. Tale territorio in cui si vive
può essere esteso anche oltre i confini amministrativi della struttura statuale
comprendendo anche lo spazio fisico e sociale di popolazioni cui si è collegati
in un vincolo federativo e culturale. Non è però da trascurare una visione
ancora più ampia di Patria vista come tutto il genere umano che porta a
difendere i diritti fondamentali di qualsiasi uomo sulla faccia della terra,
giustificando anche interventi slegati da limiti di spazio.
La DCNAN dovrebbe difendere da tutte le minacce umane volontarie,
involontarie e naturali in un'ottica integrata.
Già attualmente lo Stato si prende cura di difendere da tutte queste
minacce con modelli e strutture diverse. Ciò avviene a partire dai secoli
scorsi, derivando da una evoluzione del concetto di difesa. Negli ultimi secoli
dello scorso millennio si è andati convertendo gli eserciti al servizio di
"signori della guerra", andandosi a strutturare l'idea dello stato
nazionale, in strutture militari che difendessero dagli attacchi degli eserciti
di altri stati[9]. In seguito,
attorno al 1800, sono state concepite strutture per la difesa da minacce
naturali come gli incendi o come le malattie, con i pompieri o le pubbliche
assistenze. Solo negli ultimi decenni si è andati ad integrare le diverse
strutture, per esempio in una organizzazione di Protezione Civile e un Servizio
Sanitario Nazionale, sia per avere una migliore efficacia che per ridurre
l'impiego di risorse.
A seconda di come l'integrazione avviene, però, si può rischiare una
debolezza di efficienza o anche solo di efficacia della struttura. Per esempio
la centralizzazione della struttura la può rendere più vulnerabile nel caso la
minaccia colpisca il centro del sistema, sia essa un terremoto o un colpo di
stato. Ma avere una struttura integrata che comprenda tutte le minacce non
esclude la possibilità di contemplare strutture parallele che siano in grado di
surrogare e/o controllare le altre strutture. Ciò però non sarebbe lasciato al
momento dell'emergenza ma dovrebbe essere concepito ed organizzato fin
dall'inizio. Ciò può essere ottenuto con strutture a rete multirelazionale in
cui sono individuate responsabilità vicendevoli e non accentrate
gerarchicamente.
Il modello di DCNAN, per il suo stesso nome, non può essere basato su
rapporti di violenza ma di giustizia, e può, quindi, prevedere anche dinamiche
di forza, ma non di violenza, in cui le azioni derivano da criteri etici che
cercano di ridurre il danno complessivo e di evitare di mettere a repentaglio
l'incolumità di tutte le persone coinvolte nell'emergenza. Se ciò può sembrare
ovvio per quanto riguarda le minacce naturali, non altrettanto si può dire per
quelle umane. Nella cultura attuale, anzi, si dà per scontato che alle minacce
umane la risposta sia inesorabilmente violenta. Molti ritengono questa una
scelta innata, ma se anche così fosse, sarebbe utile affrontarla da un punto di
vista prima razionale e poi, eventualmente, anche etico.
Il criterio da seguire dovrebbe prevedere di difendersi convinti che
l'interesse particolare può realizzarsi solo nell'interesse generale, quindi
dove l'interesse del singolo non è né superiore né inferiore a quello altrui ma
è comune, impiegando risorse umane e materiali nella prevenzione dei problemi
oltre che nella loro eventuale soluzione, lavorando per una crescita culturale
e facendo anche leva sulle capacità istintuali.
La difesa dovrebbe essere attuata innanzitutto con la prevenzione,
cercando di disinnescare le minacce volontarie grazie ad un preventivo sforzo,
culturale ed economico, di collaborazione e condivisione, rimuovendo le cause
di minacce umane involontarie, annullando eventualmente i privilegi goduti da
una parte della collettività e prevenendo le minacce naturali evitando o
interrompendo comportamenti rischiosi, come per esempio la costruzione di case
sui fianchi dei vulcani.
Tale prevenzione richiede la gestione della trasformazione con lo scopo
di evitare la degenerazione della corruzione e dell'abuso, lavorando quindi in
un contesto politico o sociale affinché non si giunga ad una degenerazione. E'
quindi necessario non limitarsi semplicemente a una preparazione organizzativa
ma concretamente rendere partecipe e pronta ogni singola persona, e non
semplicemente determinate forze di controllo.
Per quanto riguarda la fase dell'emergenza, poi, le azioni di forza
dovranno essere basate sul principio del danno minore e della incolumità di
tutte le persone coinvolte nell'emergenza. A tal fine saranno da adottare tutte
le tecniche di azione diretta nonviolenza, organizzate prima dell'emergenza.
Tra queste sicuramente rientrano le strutture che consentano l'azione di
governi paralleli e il coinvolgimento di terze parti. Tali strutture dovranno
essere predisposte e provate prima che l'emergenza scoppi ma preferibilmente
dovrebbero diventare parte delle strutture gestionali che consentano una
diffusione del potere ed una partecipazione nella decisione.
Da non trascurare la preparazione all'aiuto di coloro che hanno subito
danno da tutte le minacce, come la predisposizione di tendopoli per gli sfollati
o la bonifica di terreni infestati da ordigni.
Per quanto riguarda la responsabilità della difesa, oltre a prevedere una
presenza costante, a turni tra tutte le persone, che consenta una risposta
immediata, ma soprattutto una mobilitazione e organizzazione di tutti nei
momenti di emergenza, si può scegliere di coinvolgere tutti ad un livello
minimo, affinché prendano su di sé la responsabilità della difesa propria e di
quella del vicino in tanti sensi, sia fisicamente che socialmente. Servirà
perciò prevedere dei periodi di preparazione, anche residenziali che, secondo
il dettato costituzionale, potrebbero anche essere obbligatori. Tale
preparazione consentirebbe una prevenzione ed una azione efficace e competente
e un coinvolgimento generale nelle scelte politico-organizzative, cosa che
permetterebbe una distribuzione del potere, annullando i pericoli legati
all'abuso di potere. Sicuramente è da tenere in considerazione la necessità di
permettere ai cittadini che intendano svolgere tale servizio in diversi momenti
della loro vita la possibilità di farlo, assicurando loro, se non dei vantaggi,
almeno il sostegno e le garanzie necessarie.
Come per le minacce di cui tenere conto, anche in
questo caso il modello dovrebbe prevedere tutti i tempi in modo da dare a tutti
una sicurezza generale. Sicuramente sarà da tenere maggiormente in conto la
fase di prevenzione rispetto al solito e affrontare in maniera del tutto nuova
la fase di emergenza, ma anche la fase di recupero dovrebbe essere tenuta in debita
considerazione anche come parte della strategia sia di difesa durante
l'emergenza che di deterrenza.
Difesa Civile Non Armata
e Nonviolenta |
difende: |
Cosa |
l’incolumità di tutte le persone |
le loro scelte culturali ed esistenziali che non siano in contrasto con
diritti universalmente riconosciuti |
|
i territori in cui vivono sia per gli aspetti materiali che
relazionali, pur con la disponibilità a condividerli con chi accetta di
condividerli |
|
Da cosa |
da minacce di qualsiasi tipo, siano o meno causate volontariamente
dall’uomo o dalla natura |
Chi |
coinvolgendo per parte del tempo tutti con periodi di formazione
residenziale comune ma impiegando alcuni costantemente in una struttura
organizzativa di prevenzione e allerta |
Come |
con una azione di prevenzione e monitoraggio |
tramite la deterrenza basata sulla non collaborazione o l'ostruzione in
caso di violenza ma senza minaccia o uso della violenza |
|
con una condivisione culturale ed una formazione continua |
|
valorizzando e stimolando la capacità istintuale di autodifesa |
|
Quando |
preventivamente |
durante l'emergenza |
|
dopo l'emergenza |
Le possibili minacce e la struttura difensiva
I beni minacciati (cosa difendere)
Le fonti di minaccia (da cosa difendere)
Modalità di risposta (come difendere)
Responsabilità di difesa (chi difende)
Tempi della difesa (quando difendere)
Scopi e principi della difesa collettiva
[1] La Corte costituzionale nel 1985 dichiarò la piena legittimità del servizio civile e la sua piena parità, ai fini del dovere costituzionale di difesa della patria, col servizio militare. Ciò ha introdotto nella giurisprudenza italiana il principio di forme di difesa alternative a quella militare. Dato che la legge 230/1998, riformando il Servizio Civile alternativo al servizio militare, assegna la gestione di tale Servizio Civile all'Ufficio Nazionale per il Servizio Civile e all'art.8.1.e assegna a tale ufficio il compito di "predisporre, d’intesa con il Dipartimento per il coordinamento della protezione civile, forme di ricerca e di sperimentazione di difesa civile non armata e nonviolenta", risulta evidente come il sacro dovere di difesa della Patria, che può essere svolto tramite il Servizio Civile, trova una sua attuazione concreta nella Difesa Civile Non Armata e Nonviolenta che l'ufficio che gestisce tale Servizio Civile è tenuto a sviluppare.
Ciò è ulteriormente sancito dalla stessa legge n. 64 del 2001 che ha istituito il Servizio Civile Nazionale finalizzato a «concorrere, in alternativa al servizio militare obbligatorio, alla difesa della Patria con mezzi ed attività non militari» assegnandolo proprio all'UNSC.
[2] Il "Nuovo Modello di Difesa" è stato definito in un documento presentato in parlamento nel '91, mai discusso, ma di fatto messa in pratica negli anni successivi con le dovute coperture finanziarie. Si tratta di un progetto del Ministero della difesa, distribuito ai parlamentari nell'ottobre 1991, contenuto in un libro di 251 pagine, dal titolo "Modello di difesa. Lineamenti di sviluppo delle FF.AA. negli anni '90". L'impostazione concettuale è stata ribadita nell'"Aggiornamento" pubblicato dallo Stato Maggiore della Difesa nel 1993
[3] Il giornale inglese The Indipendent riporta (http://news.independent.co.uk/world/fisk/article306436.ece) che in un "normale" mese di guerra come il luglio 2005 le vittime civili consegnate solo all'obitorio di Bagdad, spesso mutilate e torturate, sono state 1100 contro una media inferiore a 200 nel periodo prima della guerra. Dal sito http://www.iraqbodycount.net che cura il conteggio minimo e massimo dei morti civili dovuti al conflitto sulla base delle notizie di stampa, risulta che i morti civili irakeni sono per circa la metà in Bagdad. Considerando quindi la differenza di 900 come morti causate dalla situazione di conflitto in Badgad, moltiplicando almeno per 2 il dato (per considerare anche i morti di fuori Bagdad) si ottiene la cifra di 1800 morti civili a causa del conflitto nel mese di luglio 2005. Il sito Iraq Coalition Casualties http://icasualties.org/oif/ per lo stesso mese di luglio 2005, su tutto l'Irak, indica in 58 i morti militari della coalizione, sulla base dei dati ufficiali del Dipartimento della Difesa USA, e tra gli irakeni morti in 304 i militari e poliziotti e 518 i civili, sulla base delle notizie di stampa a loro disponibili. Già da questi dati risulterebbe, con una contabilità decisamente macabra, che il numero di morti civili (518) è ben maggiore dei militari delle due parti (58+304=362). A questo punto, però, si può ricalibrare il dato precedente dei morti irakeni desunti dalla stampa. Se i morti rilevabili dal conteggio negli obitori irakeni sono 1800 contro i 518 comunicati dalla stampa, si può considerare una analoga sproporzione per i militari irakeni comunicati dalla stampa che passerebbero da 304 a circa 1056. Di conseguenza il nuovo calcolo sarebbe di circa 1800 civili contro i circa 1120 (58+1056) militari e paramilitari. Si può quindi concludere che nelle guerre moderne il numero di militari morti può arrivare ad essere meno di due terzi di quello dei civili.
[4] Come indicato in precedenza, a Bagdad i morti civili sono arrivati ad essere più di cinque volte quelli mediamente rilevati prima dello scoppio della guerra.
[5] L'allora Ministro della Difesa Carlo Scognamiglio, durante una audizione parlamentare sulla riforma del servizio militare del 3/2/99 ha affermato: "La leva di massa è stata creata verso la fine del settecento, con la legge "Carnot", nell'epoca delle grandi rivoluzioni e delle guerre di indipendenza per la formazione degli stati nazionali, quando servivano eserciti costituiti da un numero grandissimo di soldati, il cui arruolamento non forzoso avrebbe comportato un costo finanziario insostenibile per gli Stati. Il numero era la potenza. Oggi la capacità operativa è innanzitutto mobilità, rapidità di risposta, professionalità, qualità del fattore umano, dell'addestramento e degli equipaggiamenti.
[6] L'articolo 5 del Trattato recita "Le parti convengono che un attacco armato contro una o più di esse in Europa o nell'America settentrionale sarà considerato come un attacco diretto contro tutte le parti, e di conseguenza convengono che se un tale attacco si producesse, ciascuna di esse, nell'esercizio del diritto di legittima difesa, individuale o collettiva, riconosciuto dall'ari. 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti così attaccate intraprendendo immediatamente, individualmente e di concerto con le altre parti, l'azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l'uso della forza armata, per ristabilire e mantenere la sicurezza nella regione dell'Atlantico settentrionale". Il trattato NATO è stato "rivisitato" con un documento intitolato "The Alliance's Strategic Concept" (Il concetto strategico dell'alleanza), datato 24/4/1999 e firmato per l'Italia dall'allora Presidente del Consiglio Massimo D'Alema. Tale documento, quasi ignorato dai mezzi di informazione e dall'opinione pubblica, è rimasto sconosciuto fino al giorno della sua ratifica e non è stato oggetto di nessun tipo di discussione, controllo o verifica e men che meno ratifica da parte di organi elettivi. E' possibile recuperare il documento integrale all'indirizzo http://www.nato.int/docu/pr/1999/p99-065e.htm. Nel capitolo "The Purpose and Tasks of the Alliance" ("Scopo e compiti dell'Alleanza") al punto 6 viene specificato che "The fundamental guiding principle by which the Alliance works is that of common commitment and mutual co-operation among sovereign states in support of the indivisibility of security for all of its members" ("Il principio guida fondamentale per cui l'Alleanza funziona è quello del coinvolgimento comune e la mutua cooperazione tra stati sovrani in supporto alla indivisibilità della sicurezza di tutti i suoi membri").
[7] Sempre nel citato documento "The Alliance's Strategic Concept", sempre al punto 24 sta scritto "Alliance security interests can be affected by other risks of a wider nature, including acts of terrorism, sabotage and organised crime, and by the disruption of the flow of vital resources" ("Gli interessi di sicurezza dell'Alleanza possono essere toccati da altri rischi di più ampia natura, includendo atti di terrorismo, sabotaggio e il crimine organizzato, e dall'interruzione del flusso di risorse vitali").
[8] Nel citato documento "The Alliance's Strategic Concept" che aggiorna gli scopi della Trattato NATO, al punto 24 sta scritto "The uncontrolled movement of large numbers of people, particularly as a consequence of armed conflicts, can also pose problems for security and stability affecting the Alliance" ("Il movimento incontrollato di grandi numeri di persone, particolarmente come conseguenza di conflitti armati, può anche porre problemi per la sicurezza e stabilità riguardanti l'Alleanza"). La sola presenza di altre persone, a prescindere dalla loro aggressività, viene quindi considerata una minaccia a cui rispondere.
[9] vedi la nota precedente relativa all'audizione del ministro Scognamiglio.