D.R. Carlo Schenone
schenone@arch.unige.it
La Difesa Civile Non Armata e Nonviolenta (DCNAN) è stata indicata dal Parlamento Italiano come modalità di attuazione del "sacro dovere di difesa della Patria" sancito dalla Costituzione Italiana e all'Ufficio Nazionale per il Servizio Civile (UNSC) è stato assegnato il compito della ricerca e sperimentazione ad essa relative[1]. Per concretizzare tale scelta del Parlamento è necessario affrontare una riflessione generale sul modello di difesa che lo Stato intende realizzare. Normalmente tale modello di difesa si dà per scontato ma tale non può essere, soprattutto dopo che è stato notevolmente modificato nel corso degli ultimi anni[2], pur senza un reale dibattito interno al Paese.
Il significato del termine "Difesa", infatti, dipende dai valori che si hanno come base delle proprie scelte di vita. È importante che il concetto di difesa sia chiaro e condiviso per arrivare a concretizzare una difesa che raggiunga il suo scopo. L'attuale "modello di difesa" italiano, che spesso si dà per ineluttabile, sembrerebbe derivare prevalentemente dalle scelte degli "addetti ai lavori" e poco consapevolmente assecondate dal Parlamento.
Possono essere vari i motivi di contestazione di un modello di difesa che spingono a richiederne la sostituzione con altri che soddisfino aspettative diverse. L'attuale modello di difesa, per esempio, in caso di conflitto aperto, non difende la vita dei cittadini che dovrebbe difendere. In caso di conflitto armato, le popolazioni sono sempre più a rischio, più che gli eserciti, senza considerare che anche i militari che compongono gli eserciti, se non sono mercenari stranieri, sono a tutti gli effetti tra i cittadini dei quali difendere la vita[3]. D'altra parte anche le ricchezze della popolazione non vengono difese perché le distruzioni annullano la ricchezza di regioni intere. Gli ultimi conflitti hanno reso sempre più evidente che non c'è esercito che riesca a preservare la vita e il benessere delle popolazioni che dovrebbe difendere dalle violenze del conflitto[4]. L'unica possibilità che ciò avvenga è nel caso in cui le forze armate agiscano in luoghi ben lontani dai territori e dalle persone che devono difendere. In altre parole solo forze armate di invasione possono portare benefici a coloro che dovrebbero beneficiare del loro operato, ma possono fare ciò proprio quando non sono più eserciti di difesa ma di attacco, o, più propriamente, di rapina. Per di più, l'attuale sistema di difesa minaccia il benessere collettivo anche quando non ci sono conflitti espliciti, drenando ingenti risorse dai cittadini per disperderle in un mercato spesso gonfiato di servizi e beni destinati, nel caso migliore e nella maggioranza dei casi, allo smaltimento e alla distruzione, senza essere mai stati utilizzati.
Diventa difficile pensare che una difesa militare possa essere fattore deterrente se crea danni maggiori a chi afferma di difendere rispetto a chi minaccia. Un tale modello di difesa non evita lo scontro ma al contrario rischia di generarlo, creando squilibri continui nella minaccia vicendevole, tanto che scontri possono avvenire senza reali motivi, solo per paura di una ipotetica minaccia altrui, per una supposta superiorità o perfino per puro caso o fraintendimento.
Fondamentalmente il modello di difesa attuale assicura esclusivamente la vittoria del più forte che non è necessariamente quello che, se può aver senso una tale distinzione, si trova moralmente dalla parte del giusto. Dato, però, che la forza non è più conseguenza del numero delle persone impegnate nel conflitto, annullando anche quella parvenza di "democrazia" delle guerre che faceva vincere l'esercito più numeroso, gli attuali modelli di "difesa", in cui conta soprattutto la disponibilità di risorse tecnologiche, assicurano semplicemente la vittoria del più ricco.[5]
Ed essendo ormai evidente che questo sistema di difesa minaccia tutto ciò che dovrebbe difendere, il nuovo bene che si afferma di difendere è diventata la libertà. Ma questo modello di difesa è quanto di più illiberale possa esserci, prendendo in ostaggio persone e informazioni, e negando i diritti primari, sempre in nome del principio sacrosanto della difesa. Se poi si considera che le strutture militari cui viene affidata la difesa sono le principali artefici degli attacchi alle istituzioni democratiche, risulta evidente che non sono loro che possono difendere le istituzioni di un paese.
In conclusione: tutto quello che questi modelli di difesa dicono di difendere in realtà lo mettono in pericolo.
È quindi necessario fare una riflessione su quali siano le aspettative per una difesa collettiva, almeno sui cinque punti fondamentali: chi o che cosa, da che cosa, come, con chi e quando difendere. Le scelte su questi argomenti necessariamente escluderanno alcuni modelli di difesa ed evidenziando i vantaggi di altri. Nel seguito saranno prima prese in considerazioni tutte le opzioni di difesa senza distinzioni di merito o di valore, una semplice carrellata di quali siano, nei diversi modelli di difesa presenti nel mondo, le scelte attuate. Successivamente verranno elencate le caratteristiche di un modello di difesa che sia efficacemente compatibile con le scelte costituzionali e più in generale con il rispetto dei diritti umani e della vita.
Per definire "che cosa" difendere c'è innanzi tutto da tenere
in considerazione il concetto di «sacro dovere di difesa della Patria». Nulla
vieta di estendere il sacro dovere di difesa ad altro oltre la Patria, ma
sicuramente, parlando di difesa in Italia è necessario fare i conti con il
dovere di difesa sancito dalla Costituzione. Il concetto di Patria, infatti,
può riferirsi a "realtà" anche molto diverse tra loro, ad uno spazio,
a un territorio, a persone, a beni oppure a ricchezze.
La prima concretizzazione del concetto di Patria, quella più tipica, è
data dai confini nazionali. In tale concezione, difendere la Patria
significherebbe difendere un territorio, uno spazio fisico, il "suolo
patrio". Considerando, però, che le relazioni internazionali tendono a configurare
sempre nuove aggregazioni, si potrebbe considerare "suolo patrio"
tutto lo spazio che rientra all'interno dei confini non solo di una nazione ma
di qualsiasi nazione con cui ci si federa o anche solo si fanno alleanze. Le
ultime guerre mondiali hanno coinvolto così tante nazioni proprio sulla base di
un tale principio che, per esempio, nel trattato NATO si trova codificato anche
nel suo ultimo aggiornamento, che ha ulteriormente esteso i motivi di
attivazione degli eserciti degli stati membri[6].
L'integrazione sempre più stretta tra i paesi europei, a cui si collega lo
sviluppo di un sistema di difesa europeo, allarga in maniera ancora più ampia i
confini del "suolo patrio" che l'Italia potrebbe essere chiamata a
difendere.
Ragionando più in generale, però, il territorio da difendere potrebbe
anche restringersi allo spazio vitale di ogni singola persona, quasi un
contesto fisiologico necessario alla sopravvivenza, quello che molti animali
intendono come proprio territorio. L'accezione oggi più comune del concetto di
territorio però va in direzione opposta, valorizzando più un punto di vista
sociale che fisico o perfino fisiologico; si può intendere come la struttura
organizzativa delle popolazioni, la loro organizzazione sociale, soprattutto da
un punto di vista amministrativo, storicamente rappresentato ma non più
ristretto ai confini geografici di una amministrazione[7].
Il confine è sicuramente un criterio semplice in quanto rende semplice la
distinzione tra quello che è con me, l'amico con cui ci si difende, e quello
che è contro di me o è diverso da me, il nemico da cui difendersi.
Ma le strutture organizzative sociali vengono sempre più identificate,
più che da linee di confine, sulla base di strutture politiche intese come le
istituzioni decisionali, gli organi di governo che amministrano una popolazione[8].
Difenderli significa dare loro la possibilità di operare, prendere decisioni ed
attuarle, come avviene in alcuni paesi del Centro America in cui consigli
locali continuano ad operare in parallelo alle amministrazioni centralizzate,
imposte dal governo, sostituendole funzionalmente e rendendole quindi
inefficaci.
Da un altro punto di vista, i territori che si intendono difendere
possono essere quelli definiti dalle lingue e culture delle popolazioni che
abitano in un dato spazio, i loro modi di vivere, le loro usanze o ancora di
più le loro lingue. In questo caso i confini diventano molto meno definiti, si
intersecano e si mescolano e ciò richiede delle mediazioni, proprio perché una
linea sul terreno definisce un dentro e un fuori, ma ciò non può essere fatto
facilmente per le culture o le lingue, come è evidente in molte zone di confine[9].
In alcuni casi i confini potranno essere intesi come distinzioni di regioni
culturali o linguistiche[10],
in altri anche questo sarà impossibile come nel caso di popolazioni nomadi[11].
Analogamente si può pensare di difendere non tanto uno spazio quanto un
insieme di beni. In tal caso bisogna ulteriormente distinguere se si intende
difendere il benessere, la pace (intesa come lo "shalom") delle
popolazioni o la ricchezza economica oppure, ancora, i privilegi conquistati,
cioè quello che si è riusciti ad ottenere col proprio lavoro o anche con azioni
di rapina, come gli eserciti coloniali facevano ancora nel secolo scorso, non
ultime le truppe inglesi alle isole Malvinas. Si può scegliere di difendere le
ricchezze appartenenti a chi si difende magari anche in quantità e forma che
varia e preservarle dagli attacchi del tempo e degli uomini[12].
Queste ricchezze però potrebbero anche non essere necessariamente dentro al
limitato spazio geografico in cui si vive, ma possono trovarsi in altri
territori, a volte perfino fuori da qualsiasi collocazione geografica[13].
È in base a quest'ultimo criterio che il modello di difesa italiano
prevede la possibilità di intervenire fuori dai confini della Patria per
difendere i suoi interessi economici. Si considera Patria da difendere
qualsiasi attività che porti ricchezza al paese o anche solo un "flusso di
risorse vitali"[14].
Altro punto di riferimento dei modelli di difesa possono essere le
persone o più in generale le popolazioni.
In alcuni casi la difesa si limita a considerare solo i soggetti più
deboli, che possono essere deboli da un punto di vista fisico o da un punto di
vista sociale, come nel caso di alcuni servizi sanitari nazionali o di
assistenza sociale[15].
In tale caso non ci si interessa di difendere tutta una popolazione ma solo di
non abbandonare coloro che non avrebbero mezzi per difendersi. Tutti gli altri
dovranno arrangiarsi con le loro forze. Tale approccio difficilmente configura
una difesa della Patria, che più coerentemente potrà essere associata alla
difesa dell'intera popolazione, potendo intendere come popolazione il complesso
delle persone o invece specifiche etnie. Sarà necessario stabilire i soggetti
da difendere sulla base del luogo di nascita[16],
sulla base della loro origine familiare[17]
o, altrimenti, considerare appartenenti alla Patria tutti coloro che vivono
all'interno dei confini[18].
Da questo, per esempio, cambierà conseguentemente il comportamento nei
confronti dei migranti[19].
Scegliendo di difendere le singole etnie, quindi aggregazioni umane[20],
si può arrivare a minacciarne altre che condividono uno stesso territorio,
invece di accettare una contaminazione vicendevole che permetta di inglobare
tra loro le diverse etnie in maniera rispettosa dei valori e delle ricchezza
apportate da ognuna.
Quest'ultima considerazione ci porta a prendere in esame un confine più
ampio del concetto di Patria che allo stesso tempo è forse quello minimale.
Rifacendosi alla risposta che Albert Einstein fornì a chi gli chiese, al
momento del suo arrivo negli Stati Uniti, di che razza fosse, il popolo a cui
si può fare riferimento per stabilire chi deve essere difeso può comprendere
tutta la "razza umana". E ciò che deve sicuramente essere difeso ai
membri di tale "razza" sono i diritti che da tale appartenenza
derivano. Come conseguenza, il modello di difesa potrà farsi carico di
difendere i diritti umani di qualsiasi essere umano, indipendentemente da
qualsiasi confine fisico o sociale[21].
È sulla base di questa scelta che un modello di difesa potrà prevedere azioni
di ingerenza umanitaria, dalle iniziative diplomatiche e negoziali
all'interposizione non armata fino ad arrivare alla "guerra
preventiva". Viste le ultime guerre scatenate anche con la motivazione
della difesa dei diritti umani, sarà ovviamente discriminante decidere con che
mezzi tali diritti dovranno essere difesi.
Tutte queste sono questioni che sicuramente
portano a specifiche distinzioni rispetto al modello di difesa da adottare.
CHE COSA |
|
||
Territori |
spazi vitali personali |
|
|
strutture sociali organizzate |
amministrative |
||
politiche |
|||
zone linguistiche |
|
||
ambiti culturali |
|
||
Beni |
benessere e serenità |
beni essenziali
(casa, vestiti) |
|
beni naturali |
|||
beni culturali |
|||
risorse economiche |
materie prime |
||
infrastrutture |
|||
impianti |
|||
privilegi economici |
concessioni |
||
patrimoni finanziari |
|||
Popolazioni |
le persone |
deboli |
fisicamente |
socialmente |
|||
originarie |
|
||
abitanti |
|
||
le etnie |
culturali |
|
|
razziali |
|
||
diritti umani |
|
Affrontando il tema del "sacro dovere di difesa della Patria"
il primo tipo di minaccia cui a cui si pensa è quella derivante da un esercito
nemico.
Ma non solo gli eserciti stranieri minacciano ciò che si ritiene la
Patria. Oramai è luogo comune considerare il terrorismo minaccia di tutta la
collettività ma non da meno sono le organizzazioni criminali, anche
internazionali. Ultimamente, poi, gli attacchi volontari possono arrivare anche
da organizzazioni economiche[22]
che sono in grado di mettere a repentaglio le economie di interi paesi anche in
maniera rigorosamente legale.
Per altro, minacce possono venire dall'interno dello stesso Stato, dalle
sue strutture[23], da organizzazioni
criminali[24], ma anche
dalle forze politiche che ne sono parte costituente, come nel caso in cui
ottengono il potere tramite brogli, con l'aiuto elettorale della malavita
organizzata oppure quando dissanguano il benessere economico del paese con la
corruzione. La Patria si può quindi difendere da tutte le minacce che persone,
gruppi e organizzazioni potrebbero attuare nei sui confronti.
Riferendosi inizialmente ai confini dello Stato, il concetto di difesa
diffusosi nella nostra cultura nei secoli scorsi non ha mai preso in
considerazione altre minacce se non quelle volontarie. Solo negli ultimi
decenni, dall'alluvione del Polesine e dalla tragedia del Vajont in Italia, si
è andata formando la coscienza che la collettività deve anche difendersi in
maniera non semplicemente spontaneistica da ciò che la minaccia sia per cause
naturali come alluvioni, terremoti, valanghe e tempeste che per colpe anche
involontarie degli uomini come esplosioni, allagamenti, crolli, inondazioni,
incendi e frane. Questo processo ha portato, in seguito ai terremoti del Friuli
e dell'Irpinia, al costituirsi del servizio di Protezione Civile. Solo per
alcuni tipi specifici di minacce, come per quella sanitaria, la collettività,
soprattutto a livello locale, aveva in qualche maniera in passato provveduto a
dotarsi di strutture collettive di difesa[25],
e, solo in tempi successivi, con un Servizio Sanitario Nazionale. Anche altre
minacce sono state affrontate in maniera organizzata localmente con squadre di
volontari, che in seguito, a volte, sono state coordinate in un servizio
nazionale[26]. Per il
resto ognuno doveva provvedere da solo o attraverso la solidarietà che sorgeva
spontanea nel momento dell'emergenza.
In molte situazioni ci possono essere interessi contrari alla difesa da
un determinato agente di minaccia che ostacolano la strutturazione di tali
difese. Se ci si difende da minacce volontarie umane, coloro che vedono un
vantaggio indiretto nell'attuazione delle minacce, magari per connivenza con
chi minaccia, presumibilmente si rifiuterà di collaborare alla difesa da queste
minacce, se addirittura non arriverà ad ostacolare tale difesa. Una difesa da
minacce umane involontarie, o, al limite, colpose, può essere ostacolata dal
fatto che c'è chi ha più vantaggio individuale rispetto a quanto è il rischio,
e può anche non essere solo una persona ma un ente ad avere più vantaggio che
rischio dalla concretizzazione di queste minacce. Per esempio, in questioni di
difesa ambientale, il vantaggio per il singolo individuo che specula sui
possibili rischi è sicuramente superiore allo svantaggio che potrà subire se la
minaccia si concretizza[27].
Nel caso di minacce naturali, la difesa può essere osteggiata da chi trova
maggiore vantaggio individuale ad impiegare risorse in altri contesti piuttosto
che nella prevenzione del rischio collettivo[28].
Questi ultimi sono tutti fattori da tenere in
considerazione nell'organizzazione della difesa.
DA CHE COSA |
chi ostacola la
difesa |
|
Minacce volontarie esterne |
forze armate |
chi ha interesse
indiretto |
terroristi |
||
organizzazioni criminali |
||
organizzazioni economiche |
||
Minacce volontarie interne |
forze armate |
chi attua la
minaccia e ne ha profitto diretto |
forze politiche |
||
Minacce involontarie |
esplosioni |
chi ha maggiore
vantaggio personale di quanto sia lo svantaggio collettivo |
inondazioni |
||
crolli |
||
incendi |
||
frane |
||
Minacce naturali |
epidemie |
chi ha vantaggio
dall'impiego di risorse in altri ambiti |
alluvioni |
||
valanghe |
||
terremoti e eruzioni |
||
tempeste |
Molte sono le possibili scelte riguardo alla modalità con cui si intende
affrontare le minacce. Queste diverse scelte dipendono in gran parte dal
livello di preparazione che si intende attuare in vista della minaccia e dal
livello di danno che si ritiene ammissibile cagionare all'avversario.
Ci si baserà semplicemente sulla difesa spontanea se si ritengono le capacità
individuali di autodifesa sufficienti ad evitare le minacce, lasciando
eventualmente al momento dell'emergenza l'organizzazione di una difesa
collettiva. Si può quindi anche scegliere di non organizzare preventivamente
una difesa, se si ritiene sufficiente la capacità istintuale di reazione alle
avversità, per cui in ogni momento ogni essere umano è capace autonomamente,
senza particolari preparazioni, di reagire ad una situazione di minaccia.
Di solito a questa ipotesi si affianca l'intenzione di prevenire le
minacce tramite una preparazione culturale ed una educazione della popolazione[29].
L'impiego di risorse sarà limitato e in caso di emergenza, oltre che alla
capacità di difesa istintuale si potrebbe contare sulle conoscenze acquisite a
livello culturale[30].
Queste scelte, soprattutto per quanto riguarda le minacce umane, evitano di
affrontare, almeno in un primo tempo, delicati problemi etici legati all'uso o
meno della violenza. Quindi, se si ritiene sufficiente una preparazione
culturale generalizzata, ritenendo che basti essere educati in un certo
contesto per evitare la concretizzazione delle minacce, si può utilizzare una
limitata quantità di risorse per prevenire culturalmente le emergenze,
lasciando alla reazione istintiva dei singoli la risposta nel caso in cui la
minaccia prenda corpo[31].
Ritenendo però necessario anche prepararsi ad agire direttamente,
bisognerà organizzare concretamente la difesa utilizzando anche risorse
specifiche, distogliendole da altri usi, impiegando risorse umane e materiali
non solo per la prevenzione ma anche per l'educazione, la formazione e la
preparazione della difesa diretta[32].
Per la reazione alla minaccia, potranno essere organizzate strutture che
preparino e mantengano efficace tale difesa e che vigilino in modo da attivare
una difesa efficace al momento della concretizzazione della minaccia
predisponendo una organizzazione che gestisca e mantenga tali risorse, anche
addestrando coloro che verrebbero direttamente coinvolti nella difesa, prevedendo
le strutture di allerta e l'attivazione della difesa al momento dell'emergenza[33].
Un'altra maniera di difendersi consiste quindi nell’organizzare preventivamente
una forza di intervento stabile a cui è demandata totalmente l'azione di
contrasto[34].
La scelta di quali interventi possono essere leciti richiede, per altro,
un ulteriore livello di discernimento. La scelta della modalità di difesa da
minacce umane è quella che più pesantemente implica condizionamenti di tipo
etico, richiedendo una contrapposizione ad altri esseri umani. Per scegliere in
quali maniere ci si può difendere è necessario distinguere varie forze, vari
atteggiamenti, diversi motivi.
Nel caso di minacce umane volontarie, infatti, si può ipotizzare di
difendersi senza violenza, senza prevaricazione, evitando di creare danno a sé
e all'avversario o invece mettendo a rischio l'incolumità dell'avversario
arrivando anche a cercare di distruggerlo.
Nel primo caso si ricorre a strumenti che rispettano la libertà e la vita
anche di chi non fa tali scelte. È il principio base dello "Stato di
Diritto". All'interno di questo logica rientrano tutti i sistemi di
regolamentazione, legislazione, mediazione, ma anche gli interventi di
interposizione internazionale. Il sistema legislativo e giudiziario, dovrebbero
avere proprio lo scopo di regolare la vita collettiva, difendendo la società da
abusi e prevaricazioni, soprattutto nei confronti delle sue componenti più
deboli. Anche in questo caso bisogna capire quali strumenti possano essere
utilizzati per far rispettare la regolamentazione. Ad esempio la carcerazione
potrebbe essere considerata violenza, a maggior ragione se viene concepita non
solo come privazione della libertà di movimento con uno scopo rieducativo ma
come strumento di repressione, se non di tortura. In ogni caso le minacce
vengono risolte per l'intervento esterno di altri che si coinvolgono nel
conflitto. Gli interventi di interposizione, soprattutto quelli attuati nel
contesto di organismi internazionali, dovrebbero rappresentare una maniera di
agire l'ingerenza umanitaria senza che questa possa configurarsi come forma di
occupazione: essa rimane una azione di contrasto a minacce, anche se rivolte ad
altri.
In generale, però, si prevede anche la classica risposta violenta, per
cui, pur di difendere gli interessi minacciati, si ritiene un diritto
danneggiare se non distruggere l'avversario, l'equivalente della
"legittima difesa" in un conflitto interpersonale. La scelta di usare
la violenza per difendersi dagli attacchi altrui può però essere razionalmente
giustificata solo nel caso in cui si ritenga di avere una forza superiore a
coloro il cui attacco si intende evitare, in modo da poter causare loro un tale
danno da indurli a interrompere l'attacco prima di soccombere.
Ma se si intende "difendere" l'interesse e il benessere
materiale anche a scapito di quelli degli avversari, può diventare ragionevole
non limitarsi a respingere gli attacchi altrui ma arrivare ad attaccare gli
avversari nelle situazioni in cui, per quello che si diceva prima, si sa di
essere più forti. Se si ritiene il proprio interesse superiore al diritto
altrui e soprattutto ci si sente i più forti, si può essere tentati a
"difendere i propri interessi" anche attaccando gli interessi altrui.
In altre parole, si riterrebbe che l'interesse proprio non sia limitato
dall'interesse altrui, ma anzi superiore a quello degli avversari, ed il
"difenderlo" significa accrescerlo il più possibile. Ciò, quindi,
farebbe rientrare l'aggressione nel suo concetto opposto, quello di difesa. In
tale caso, infatti, il termine difesa è volutamente forzato. Tale scelta è alla
base di buona parte dei "modelli di difesa" attualmente utilizzati
dagli eserciti, soprattutto occidentali.
Le due ipotesi di uso della violenza, per altro, possono integrarsi: un
sistema di difesa violenta permette infatti abbastanza facilmente di essere
trasformata in sistema di attacco. Questa trasformazione non è immediata
perché, per esempio, la costruzione di una portaerei, che è una tipica arma di
attacco, richiede tempo e notevoli risorse. Un modello di difesa violenta è,
però, un ottimo modello di base per un modello aggressivo. Si tratterà di
integrare il primo con gli strumenti e le metodologie utili all'aggressione,
come è avvenuto negli ultimi anni in Italia con gli ultimi cambiamenti del
modello di difesa armata.
È utile aggiungere una riflessione riguardo all'utilizzo della violenza
per affrontare una minaccia umana, un conflitto.
Nel caso di due contendenti, il ricorso alla violenza può avere una
motivazione razionale, prescindendo dagli aspetti etici, solo se si ritiene di
essere in grado di inferire più dolore e distruzione di quanto possa fare
l'avversario. Analogamente se si pensa di essere in grado di sopportare gli
effetti negativi dello scontro più dell'avversario, per cui l'avversario alla
fine recederà per primo dal proseguire il conflitto, a prescindere da chi
attacca e chi difende. In caso contrario, scegliere una modalità violenta per
affrontare il conflitto è decisamente autolesionistica, dettata più dalla
disperazione o dalla necessità di salvaguardare la propria dignità, come ultimo
valore rimasto, che dalla razionalità, essendo presumibilmente la rinuncia a
difendersi una soluzione meno dannosa. In definitiva una difesa violenta ha
senso solo nel caso di attacco da parte di qualcuno più debole. Ma in tal caso
sarebbe l'attaccante a non aver ragione di attaccare, se non per una scelta
masochistica. Si può quindi capire che uno scontro violento ha senso solo nel
caso in cui entrambe le parti in conflitto siano convinte, o sperino, di essere
superiori in forza o in capacità di sopportazione. Altrimenti significherebbe
che uno dei contendenti, non vedendo alcune possibilità di superamento positivo
del conflitto, accetta di autodistruggersi, per disperazione o per dignità,
cercando di distruggere l'avversario, come ormai testimoniano gli attacchi
suicidi che sempre più frequentemente insanguinano i conflitti armati.
Proprio partendo da questo ragionamento, si può considerare che
l'evoluzione di un conflitto in forma violenta deriva innanzitutto da due
possibilità: dalla sopravalutazione delle proprie forze di offesa oppure di
sopportazione da parte di entrambe i contendenti, ma anche dalla disperazione
di chi reagisce all'attacco non avendo più niente da salvare e quindi da
perdere. Altrimenti sembrerebbe più razionale l'alternativa di una
sottomissione all'attaccante, che permetta di preservare almeno in parte la
propria condizione di vita, la propria libertà, il proprio benessere.
Quasi sempre la scelta di adottare una strategia violenta per rispondere
ad una minaccia umana, deriva dalla rimozione, in qualche misura patologica,
dei danni che nel conflitto si ricevono, amplificati dalla scelta di rispondere
in maniera violenta alla minaccia. D'altra parte la decisione di sferrare un
attacco violento deriva spesso dalla consapevolezza che i danni verranno subiti
da altri che non sono coloro che scatenano la violenza, sperando che la
ricaduta su di sé possa essere rimandata per tutta la propria vita[35].
Nel caso in cui si sceglie di evitare la violenza, invece, anche chi
ritiene di avere una forza inferiore può ragionevolmente provare a contrastare
la minaccia altrui. Non minacciando l'incolumità dell'avversario ma, al
contrario, riconoscendo i suoi diritti leciti, non si induce in lui la paura di
perdere, soprattutto nel caso in cui la sua minaccia non derivi da una palese
intenzione di prevaricazione. In altre parole l'avversario non dovrà
"difendersi preventivamente", cioè attaccare prima di essere
attaccato, innescando il meccanismo deflagrativo visto prima. Ovviamente il
problema si sposta nel trovare azioni che non siano violente ma che inducano un
cambiamento nella situazione.
Per fare in modo di evitare la situazione di fraintendimento prima
presentata, nella quale entrambe le parti stimino di avere una forza superiore
arrivando a far deflagrare il conflitto, chi si sente minacciato di solito
cerca di rendere edotti tutti gli avversari delle proprie possibilità di difesa
in modo da disincentivare il loro interesse ad attaccare. È il meccanismo della
deterrenza che funziona sia nel caso si adotti una difesa violenta che una
difesa che rifiuti l'uso della violenza. Nel primo caso ad inibire lo scontro è
soprattutto la convinzione che avrebbe conseguenze devastanti per chi attacca,
nel secondo caso, invece, sarebbe semplicemente la convinzione di non riuscire
a trarre un vantaggio dall'attacco, sprecando risorse inutilmente.
La deterrenza, però, si ottiene solo se realmente
si dimostra di essere sufficientemente forti, altrimenti si rischia di ottenere
l'effetto opposto, inducendo l'avversario a ritenersi più forte e quindi
invogliandolo ad attaccare. La "deterrenza violenta" ha, però, un
ulteriore effetto destabilizzante: dimostrarsi più forti degli altri può
impaurirli facendo loro temere di essere minacciati, inducendoli pertanto ad
attaccare per primi per cercare di avere il vantaggio iniziale nello scontro,
oppure ritenendo di essere in tale stato in inferiorità da non avere niente da
perdere più di quello che lo scontro farebbe perdere. La "deterrenza
nonviolenta" forte, invece, si limita ad inibire la minaccia
dell'avversario senza essere a sua volta minacciosa, avendo come unica
possibile conseguenza l'abbassamento del livello di minaccia vicendevole. Tutto
ciò vale, ovviamente, nella misura in cui il confronto può essere mantenuto su
un livello razionale e relazionale. Proprio per evitare tale "effetto
laterale" della difesa nonviolenta i tiranni si prodigano nel fomentare
atteggiamenti irrazionali e nel impedire la comunicazione tra le parti.
L'ignoranza e la mancanza di comunicazione sono i principali nemici che un
modello di difesa nonviolento deve combattere.
COME |
Perché |
|
Istinto |
Non prepara una difesa |
- si
ritiene che le capacità individuali di autodifesa siano sufficienti. |
Cultura |
Cerca di prevenire il danno da parte di altri |
- si ritiene basti una
preparazione culturale per evitare il sorgere dei conflitti |
Azione diretta nonviolenta |
Cerca di impedire il danno senza
procurarlo |
- si
ritiene necessario preparare una azione di contrasto alla minaccia |
Violenza |
Cerca di danneggiare chi arreca
danno |
- si
considera solo il proprio interesse anche a rischio dell'incolumità altrui |
Aggressione |
Cerca di danneggiare chi non
arreca danno |
- si
ritiene il proprio interesse superiore al diritto altrui |
È necessario scegliere a chi affidare la difesa. Il problema è che chi
difende può avere diversi motivi e spinte a farlo.
La difesa da parte di pochi professionisti[36]
è desiderata da chi vuole professionalità e preferisce che ci sia una specifica
preparazione, molto raffinata, riguardo a questi problemi. La difesa basata su
pochi professionisti ha il vantaggio che vengono impiegate limitate risorse
umane, anche se per contro diventano necessarie notevoli risorse materiali per
equipaggiare e retribuire adeguatamente il limitato numero di addetti
specializzati. Dovendo delegare a poche persone un compito delicato come la
difesa di tutta una popolazione diventa necessario che essi siano forniti di
strumenti potenti e tecnologicamente avanzati, la cui vendita implica notevoli
guadagni per chi li produce e commercializza. Anche per questo avere una
organizzazione in cui pochi professionisti curano la difesa della collettività
è conveniente per chi fornisce tali strumenti sofisticati. Per altro, essendo
necessaria una alta professionalità nei pochi difensori, essi stessi sono tra i
fautori di tale tipo di scelta, traendone un notevole vantaggio economico.
Questi pochi hanno, per altro, tutto il potere di dare o levare sicurezza agli
altri: Dare e levare sicurezza è una questione estremamente delicata nella vita
degli uomini, fin dalla loro nascita. È un rapporto di potere molto forte, del
cui abuso spesso non si tiene sufficientemente conto, fino al giorno in cui
l'esercito occupa il parlamento o la polizia attacca i manifestanti inermi.
Assegnare tale potere a pochi crea uno squilibrio che fa timore a chi non si
fida della fedeltà di questi al bene comune, sia che possano abusarne, sia che,
semplicemente, lo considerino in subordine al proprio, rinunciando a difendere
se questo mette a repentaglio la loro stessa sicurezza.
Una parziale evoluzione di tale modello che sta sempre più spesso
prendendo campo è quella di una difesa in cui nella fase di emergenza si
ricorre a personale specializzato non alle dipendenze dirette dello Stato[37].
Da un certo punto di vista questo modello, basato un tempo sui mercenari,
indebolisce la struttura difensiva delegando un potere così delicato, anche se
teoricamente, ma spesso non praticamente, potrebbe anche permettere una
economia di gestione. Una via intermedia che viene adottata è di esternalizzare
solo alcuni aspetti[38],
riservando allo Stato l'uso diretto della forza.
Per cercare di risolvere, almeno parzialmente, tali problemi, in alcuni
modelli di difesa le poche persone delegate alla difesa lo sono a turno tra
tutta la popolazione[39].
Ciò consente un minore accentramento del potere e riduce l'interesse degli
addetti, i quali lo saranno tendenzialmente solo a tempo parziale. Questa
scelta, per altro, riduce la possibilità di acquisire una alta professionalità
tra gli addetti e richiede ugualmente che ci sia almeno una struttura
dirigenziale stabile, che in definitiva continuerebbe a detenere il potere di
dare o levare sicurezza, anche se in misura decisamente minore.
Un'altra scelta presente negli attuali modelli di difesa prevede di
coinvolgere alcuni stabilmente o a turno e, in emergenza, tutti. I pochi
professionisti coinvolti stabilmente si limitano a mantenere la struttura di
allertamento e di addestramento, che si svolgerà in fasi successive per tutti.
È il modello classico della difesa popolare che può prevedere un coinvolgimento
della popolazione volontario[40]
o obbligatorio[41]. Questo
modello è auspicato da chi non vuole delegare completamente la propria
sicurezza ad altri ma esserne costantemente responsabile, pur permettendo di
assicurare un buon livello di difesa in caso di emergenza. Questo modello
permette di non tenere impiegate troppe risorse, perché solo alcuni sono
costantemente impegnati, pur conservando a tutti il potere della propria
difesa, mantenendo l'efficacia, soprattutto attuando una rotazione tra gli
addetti.
Una ultima possibilità potrebbe prevedere una mobilitazione costante di
tutti. Può essere richiesta per avere la corresponsabilizzazione di tutti nella
vita sociale da chi si aspetta che tutti si sentano coinvolti in quello che
succede nella vita di tutta la popolazione. In questo modello tutti sono
chiamati costantemente all'autodifesa, ognuno è responsabile nel bene e nel
male della difesa del bene collettivo, e potrebbe essere scelto se non si
ritiene fondamentale una preparazione o, contrariamente, nel caso si ritenga
accettabile una pesante utilizzazione di risorse per la preparazione continua
di un grande numero di soggetti.
CHI |
chi lo preferisce |
perché |
vantaggi |
Pochi |
i pochi addetti |
detengono il potere di dare e
levare sicurezza, lavoro ben retribuito |
poche risorse umane |
chi fornisce strumenti sofisticati |
forti guadagni |
||
chi richiede professionalità |
maggiore preparazione |
||
Pochi a turno |
chi fornisce strumenti sofisticati |
forti guadagni |
maggiore distribuzione del potere |
i pochi addetti stabili |
detengono il potere di dare e
levare sicurezza |
||
chi vuole l'efficienza |
maggiore preparazione con minore
accentramento di potere |
||
Alcuni a turno, in emergenza tutti |
chi non vuole delegare |
paura di abusi |
fa usare meno risorse umane |
chi vuole l'efficienza |
maggiore preparazione con minore
accentramento di potere |
||
Tutti sempre |
chi non vuole delegare |
paura di abusi |
non delegare il proprio potere,
tutti chiamati all'autodifesa |
chi vuole la corresponsabilità |
per condividere il potere |
||
chi non vuole una preparazione |
per non avere egemonie di pochi |
Un aspetto importante da tenere in considerazione nella classificazione dei modelli di difesa riguarda anche i tempi in cui i diversi modelli cercano di rispondere alle minacce.
La difesa può attivarsi in fase preventiva, durante la quale la minaccia può essere già presente, ma non è ancora attuata. In questa fase è possibile operare per ridurre l'intensità della minaccia ed evitare che arrivi a scatenare le sue conseguenze più nefaste. Durante questo periodo è per altro molto più facile attrezzare le strutture di difesa per l'eventualità dell'emergenza e formare il personale che potrebbe essere chiamato a fronteggiare la minaccia. Purtroppo in questo periodo la minaccia non è ancora esplicita e spesso non viene percepita o per lo meno non viene pensata come pericolosa. Ciò fa sì che spesso questa fase venga trascurata, anche contando su una provvidenziale dissoluzione autonoma o non attivazione della minaccia.
Viene poi la fase dell'emergenza. È la fase di cui solitamente ci si prende più cura nella predisposizione della difesa, proprio per la drammaticità della situazione, e in cui le capacità di autodifesa delle persone più facilmente si attivano. Durante questa fase maggiori sono i danni e il dolore provocati dall'attuazione della minaccia.
Una volta la minaccia[42] ha generato i suoi danni, anche la fase di recupero può essere considerata parte dei tempi della difesa, soprattutto se questa funzione deve cominciare quando l'emergenza è ancora attiva. Tenere in considerazione nella difesa anche questa fase permette di ridurre notevolmente i danni seguenti alla fase di emergenza, anche se è difficile che sia sufficientemente tenuta in considerazione quando la minaccia non è ancora esplicita, considerandola perfino meno che la fase della prevenzione.
QUANDO |
Che cosa
fa |
Prevenzione |
evita i danni |
Emergenza |
blocca i danni |
Recupero |
riduce e allevia i danni |
Dipendentemente da tutti
questi aspetti, da ciò che si decide deriva anche il tipo di modello di difesa
da adottare. Ovviamente tali scelte diventano indirettamente anche decisioni
relative alla struttura delle relazioni delle persone che intendono adottarla,
andando ad influire notevolmente anche sulla forma e sul funzionamento
dell'istituzione statuale che pratica la difesa.
Attualmente, per una
stratificazione storica, le scelte differiscono da minaccia a minaccia. Per
esempio per le minacce volontarie la scelta è quella di fare difendere il
territorio e il benessere economico da pochi professionisti con la violenza se
non con l'aggressione, con una limitata attenzione alla difesa delle
popolazioni e delle istituzioni. Per le minacce naturali e quelle involontarie
si è scelto di usare un modello di azione diretta delegato a pochi
professionisti, con il supporto di tutta la popolazione nei momenti di
emergenza, come durante le epidemie, quando la cura viene rimandata alle
famiglie, o in occasione di alluvioni e terremoti durante i quali vengono
mobilitati i volontari per il soccorso, soprattutto per gli interventi a lungo
termine.
Cercando di definire le
linee guida della Difesa Civile Non Armata e Nonviolenta (DCNAN), prevista
dalla legge 230/1998, è importante comprendere che tale definizione rimanda
necessariamente ad una struttura istituzionale adatta a svolgere un compito che
attualmente, almeno in parte, è svolto da altre strutture, anche esse
istituzionali. In altre parole, è necessario comprendere di che cosa possa
interessarsi un modello di difesa che sia civile, non armato e nonviolento, e
quali siano le funzioni che esso può svolgere. Si tratterà poi di procedere
alla sua realizzazione che dovrà necessariamente passare per fasi successive.
Queste fasi devono permettere sia di integrare ciò che già esiste e che ancora
serve sia di sviluppare tutto ciò che serve ma non è ancora presente,
predisponendone lo studio e la sperimentazione. Sarebbe un grave errore
focalizzare l’attenzione solo su questo ultimo aspetto, anche perché si
rischierebbe poi di non predisporre un sistema organico e coerente che sia
consistente all'interno della società. D'altra parte sarà necessario in prima
istanza impegnare le risorse disponibili ad affrontare gli aspetti e le esigenze
che finora hanno avuto minore o nulla attenzione.
Vediamo quali potrebbero
essere le scelte da adottare per giungere ad una DCNAN.
Il modello di DCNAN dovrebbe prevedere di difendere i deboli, aiutare chi
non ha la capacità di difendersi, ma difendere anche le popolazioni, con le
loro culture autonome che devono poter coesistere con la salvaguardia della
cultura presente su un territorio, con ricchezza di scambio di diversità nel
rispetto di alcuni principi fondamentali comuni. È giusto che la popolazione
residente su un territorio veda rispettati i propri principi fondamentali ma
anche la propria cultura. Ciò non deve escludere l'accoglienza della ricchezza
di culture diverse, anche se la difesa dei diritti umani potrebbe richiedere di
imporre la cessazione di determinate usanze che si ritiene non li rispettino.
Tale modello dovrebbe anche difendere lo spazio vitale nelle sue ricchezze,
anche culturali, rendendole disponibili a chiunque voglia farne un uso
rispettoso e non esclusivo, e le organizzazioni sociali decise autonomamente da
tutti coloro che risiedono sul territorio per nascita o per scelta. La Patria
da difendere sarà principalmente costituita da tutte le persone che vivono in
un territorio, con le ricchezze naturali, il loro spazio vitale, la loro
cultura, le loro usanze, la loro organizzazione gestionale e decisionale. In
altri termini la propria Patria è il proprio popolo e il territorio in cui si
vive, e al quale si è legati dalla solidarietà che deriva proprio dalla
convivenza. Tale territorio in cui si vive può essere esteso anche oltre i
confini amministrativi della struttura statuale, comprendendo anche lo spazio
fisico e sociale di popolazioni cui si è collegati in un vincolo federativo e
culturale. Non è però da trascurare una visione ancora più ampia di Patria
vista come tutto il genere umano, fatto che porta a difendere i diritti
fondamentali di qualsiasi uomo sulla faccia della terra, giustificando anche
interventi non vincolati da limiti di spazio.
Già attualmente lo Stato si prende cura di organizzare una difesa da
tutte le minacce umane volontarie, involontarie e naturali con modelli e
strutture diverse. Ciò avviene a partire dai secoli scorsi, come evoluzione del
concetto di difesa. Durante il secondo millennio, andandosi a strutturare
l'idea dello stato nazionale, si è andati convertendo gli eserciti al servizio
dei "signori della guerra" in strutture militari che difendessero
dagli attacchi degli eserciti di altri stati[43].
In seguito[44] sono state
concepite strutture pubbliche per la difesa da minacce naturali[45].
Solo negli ultimi decenni si è andati ad integrare le diverse strutture [46]
sia per avere una migliore efficacia che per ridurre l'impiego di risorse.
La DCNAN dovrebbe difendere da tutte le minacce in un'ottica integrata,
coordinando attività attualmente assunte da differenti enti visti in precedenza
e sviluppando, direttamente o tramite nuovi organismi, la difesa da minacce
attualmente poco considerate[47].
A seconda di come l'integrazione avviene, però, si può rischiare una
debolezza di efficienza o anche solo di efficacia della struttura. Per esempio
la centralizzazione della struttura la può rendere più vulnerabile nel caso la
minaccia colpisca il centro del sistema[48].
Una struttura integrata che consideri tutte le minacce dovrebbe contemplare
strutture parallele che siano in grado sia di surrogarsi sia di controllarsi
vicendevolmente. Questa integrazione non può essere lasciata al momento
dell'emergenza ma dovrebbe essere concepita ed organizzata fin dall'inizio. Ciò
può essere ottenuto con strutture a rete multirelazionale in cui sono
individuate responsabilità vicendevoli e non accentrate gerarchicamente.
Il modello di DCNAN, per il suo stesso nome, non può essere basato su
rapporti di violenza ma di giustizia, e può, quindi, prevedere anche dinamiche
di forza, ma non di violenza, in cui le azioni derivano da criteri etici che
cercano di ridurre il danno complessivo e di evitare di mettere a repentaglio
l'incolumità di tutte le persone coinvolte nell'emergenza. Se ciò può sembrare
ovvio per quanto riguarda le minacce naturali, non altrettanto si può dire per
quelle umane. Nella cultura attuale, anzi, si dà per scontato che alle minacce
umane la risposta sia inesorabilmente violenta. Molti ritengono questa una
scelta innata, ma se anche così fosse, è necessario valutarla da un punto di
vista prima razionale e poi, possibilmente, anche etico. Le scelte innate, base
della vitalità umana, dovrebbero sempre essere vagliate sul piano razionale
prima di essere attuate e spesso la soluzione violenta risulta evidentemente
illogica anche senza ricorrere a valutazioni etiche.
Il criterio da seguire dovrebbe prevedere una difesa basata sul principio
che l'interesse particolare può realizzarsi solo nell'interesse generale,
quindi dove l'interesse del singolo non è né superiore né inferiore a quello
altrui ma è comune, impiegando risorse umane e materiali nella prevenzione dei
problemi oltre che nella loro eventuale soluzione, lavorando per una crescita
culturale e facendo anche leva sulle capacità istintuali.
La difesa dovrebbe essere attuata innanzitutto con la prevenzione,
cercando di disinnescare le minacce volontarie grazie ad un preventivo sforzo,
culturale ed economico, di collaborazione e condivisione, rimuovendo le cause
di minacce umane involontarie, annullando eventualmente i privilegi goduti da
una parte della collettività e prevenendo le minacce naturali evitando o
interrompendo comportamenti rischiosi.
Della prevenzione farà parte anche la gestione
della trasformazione allo scopo di evitare le degenerazioni della corruzione e
dell'abuso, cercando di instaurare, quindi, un contesto politico o sociale che
eviti e disinneschi eventuali rischi di degenerazione. È quindi necessario non
limitarsi semplicemente a una preparazione organizzativa, ma concretamente
rendere partecipe e pronta ogni singola persona, non solo determinate forze di
controllo.
Per quanto riguarda la fase dell'emergenza, poi, le azioni di forza
dovranno essere basate sul principio del danno minore e della incolumità di
tutte le persone coinvolte nell'emergenza. A tal fine saranno da adottare tutte
le tecniche di azione diretta nonviolenta, organizzate prima dell'emergenza.
Tra queste sicuramente rientrano le strutture che consentano l'azione di
governi paralleli e il coinvolgimento di terze parti. Tali strutture dovranno
essere predisposte e sperimentate prima che l'emergenza scoppi.
Preferibilmente, dovrebbero diventare parte di strutture gestionali che
consentano una distribuzione del potere ed una partecipazione collettiva alle
decisioni.
Da non trascurare la necessità di prepararsi per la fase di recupero, per
aiutare coloro che hanno subito danno dalla concretizzazione di minacce[49].
Per quanto riguarda la responsabilità della difesa si può scegliere di
coinvolgere tutti ad un livello minimo, affinché prendano su di sé la
responsabilità della difesa propria e della collettività sia fisicamente che
socialmente. Pur se il dettato costituzionale configura un dovere della difesa
che potrebbe rendere obbligatoria la partecipazione ad essa, sicuramente la
partecipazione alla difesa collettiva dovrebbe configurarsi almeno come un
diritto al quale chiunque ne abbia intenzione può partecipare. Ciò potrebbe
avvenire nell'ambito di un Servizio Civile Nazionale che, oltre a svolgere
servizi solidaristici ai cittadini nel tempo ordinario, si prende carico di
diffondere le conoscenze necessarie per una efficace mobilitazione collettiva e
di strutturare il personale da utilizzare in caso di emergenze.
Sicuramente è da tenere in considerazione la necessità di permettere ai
cittadini che intendano svolgere tale servizio in diversi momenti della loro
vita la possibilità di farlo, assicurando loro, se non dei vantaggi, almeno il
sostegno e le garanzie necessarie per non rimetterci ma eventualmente vedendo
risarcito il proprio impegno per la collettività[50].
Organizzativamente ciò potrebbe realizzarsi con una presenza costante di
cittadini, impegnati a turno tra tutte le persone che si rendono disponibili,
in modo che non vi sia una "casta" cui sia delegato il potere della
difesa della collettività[51].
Questa presenza costante consente una risposta immediata, ma soprattutto una
mobilitazione e organizzazione di tutta la popolazione nei momenti di
emergenza.
Durante tali turni di servizio verrebbe fornita la preparazione
necessaria a partecipare efficacemente alla difesa collettiva. Servirà perciò
prevedere dei periodi di preparazione, anche residenziali. Tale preparazione
consentirebbe una prevenzione ed una azione efficace e competente e un
coinvolgimento generale nelle scelte politico-organizzative, cosa che
permetterebbe una distribuzione del potere, annullando i pericoli legati al suo
abuso[52].
Come per le minacce di cui tenere conto, anche in questo caso il modello dovrebbe prevedere tutti i tempi - prevenzione, emergenza e recupero - in modo da dare a tutti una sicurezza generale. Sicuramente sarà da tenere maggiormente in conto la fase di prevenzione rispetto a quanto ora consueto, e affrontare in maniera del tutto nuova la fase di emergenza. Anche la fase di recupero dovrebbe essere tenuta in debita considerazione come parte della strategia sia di difesa durante l'emergenza che di deterrenza.
Difesa
Civile Non Armata e Nonviolenta |
difende: |
Che cosa |
l’incolumità di tutte le persone |
le loro scelte culturali ed esistenziali che
non siano in contrasto con diritti universalmente riconosciuti |
|
i territori in cui vivono sia per gli aspetti
materiali che relazionali, pur con la disponibilità a condividerli con chi
accetta di condividerli |
|
Da che cosa |
da minacce di qualsiasi tipo, siano o meno
causate volontariamente dall’uomo o dalla natura |
Chi |
coinvolgendo per parte del tempo tutti con
periodi di formazione residenziale comune ma impiegando alcuni costantemente
in una struttura organizzativa di prevenzione e allerta |
Come |
con una azione di prevenzione e
monitoraggio |
tramite la deterrenza basata sulla non
collaborazione o l'ostruzione in caso di violenza ma senza minaccia o uso
della violenza |
|
con una condivisione culturale ed una
formazione continua |
|
valorizzando e stimolando la capacità
istintuale di autodifesa |
|
Quando |
preventivamente |
durante l'emergenza |
|
dopo l'emergenza |
[1] La Corte costituzionale nel 1985 dichiarò la piena legittimità del servizio civile e la sua piena parità, ai fini del dovere costituzionale di difesa della patria, col servizio militare. Ciò ha introdotto nella giurisprudenza italiana il principio di forme di difesa alternative a quella militare. La legge 230/1998, riformando il Servizio Civile alternativo al servizio militare, assegna la gestione di tale Servizio Civile all'Ufficio Nazionale per il Servizio Civile (UNSC) e all'art.8.1.e assegna a tale ufficio il compito di "predisporre, d’intesa con il Dipartimento per il coordinamento della protezione civile, forme di ricerca e di sperimentazione di difesa civile non armata e nonviolenta". Tale scelta legislativa deriva dal fatto che il sacro dovere di difesa della Patria svolto tramite il Servizio Civile trova una sua concreta attuazione nella DCNAN. Per questo l’UNSC è tenuto a svilupparla, proprio per dare piena attuazione alla funzione di difesa della Patria del Servizio Civile, oltre a curarne la normale gestione.
Ciò è ulteriormente sancito dalla successiva legge n. 64 del 2001 che ha istituito il Servizio Civile Nazionale finalizzato a «concorrere, in alternativa al servizio militare obbligatorio, alla difesa della Patria con mezzi ed attività non militari» assegnandolo proprio all'UNSC.
[2] Il "Nuovo Modello di Difesa" è stato definito in un documento presentato in parlamento nel '91, mai discusso, ma di fattomesso in pratica negli anni successivi con le relative coperture finanziarie. Si tratta di un progetto del Ministero della difesa contenuto in un libro di 251 pagine, dal titolo «Modello di difesa. Lineamenti di sviluppo delle FF.AA. negli anni '90», distribuito ai parlamentari nell'ottobre 1991. L'impostazione concettuale è stata ribadita nell'«Aggiornamento» pubblicato dallo Stato Maggiore della Difesa nel 1993.
[3] Il giornale inglese The Indipendent riporta (http://news.independent.co.uk/world/fisk/article306436.ece) che in un "normale" mese di guerra come il luglio 2005 le vittime civili consegnate al solo obitorio di Baghdad sono state 1100, spesso mutilate e torturate. Prima della guerra la media, pur essendo già alta, nello stesso mese non superava le 200 vittime. Dal sito http://www.iraqbodycount.net che cura il conteggio minimo e massimo dei morti civili dovuti al conflitto sulla base delle notizie di stampa, risulta che i morti civili irakeni sono per circa la metà in Baghdad. Considerando quindi la differenza di 900 come morti causate dalla situazione di conflitto in Baghdad, moltiplicando almeno per 2 il dato (per considerare anche i morti nel territorio esterno alla città) si ottiene la cifra di 1800 morti civili a causa del conflitto nel mese di luglio 2005. Il sito Iraq Coalition Casualties http://icasualties.org/oif/ per lo stesso mese di luglio 2005, su tutto l'Irak, indica in 58 i morti militari della coalizione, sulla base dei dati ufficiali del Dipartimento della Difesa USA, e tra gli irakeni morti in 304 i militari e poliziotti e 518 i civili, sulla base delle notizie di stampa a loro disponibili. Già da questi dati risulterebbe, con una contabilità decisamente macabra, che il numero di morti civili (518) è ben maggiore dei militari delle due parti (58+304=362). A questo punto, però, si può ricalibrare il dato precedente dei morti irakeni desunti dalla stampa. Se i morti rilevabili dal conteggio negli obitori irakeni sono 1800 contro i 518 comunicati dalla stampa, si può considerare una analoga sproporzione per i militari irakeni comunicati dalla stampa che passerebbero da 304 a circa 1056. Di conseguenza il nuovo calcolo sarebbe di circa 1800 civili contro i circa 1120 (58+1056) militari e paramilitari. Si può quindi concludere che nelle guerre moderne il numero di militari morti può arrivare ad essere meno di due terzi di quello dei civili. Questo calcolo conferma la tendenza in atto delle guerre moderne di colpire la popolazione civile rispetto ai militari già rilevato in precedenti conflitti.
[4] Come indicato in precedenza, a Baghdad i morti civili sono arrivati ad essere più di cinque volte quelli mediamente rilevati prima dello scoppio della guerra.
[5] L'allora Ministro della Difesa Carlo Scognamiglio, durante una audizione parlamentare sulla riforma del servizio militare del 3/2/99 ha affermato: «La leva di massa è stata creata verso la fine del settecento, con la legge "Carnot", nell'epoca delle grandi rivoluzioni e delle guerre di indipendenza per la formazione degli stati nazionali, quando servivano eserciti costituiti da un numero grandissimo di soldati, il cui arruolamento non forzoso avrebbe comportato un costo finanziario insostenibile per gli Stati. Il numero era la potenza. Oggi la capacità operativa è innanzitutto mobilità, rapidità di risposta, professionalità, qualità del fattore umano, dell'addestramento e degli equipaggiamenti.»
[6] L'articolo 5 del Trattato recita «Le parti convengono che un attacco armato contro una o più di esse in Europa o nell'America settentrionale sarà considerato come un attacco diretto contro tutte le parti, e di conseguenza convengono che se un tale attacco si producesse, ciascuna di esse, nell'esercizio del diritto di legittima difesa, individuale o collettiva, riconosciuto dall'ari. 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti così attaccate intraprendendo immediatamente, individualmente e di concerto con le altre parti, l'azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l'uso della forza armata, per ristabilire e mantenere la sicurezza nella regione dell'Atlantico settentrionale». Il trattato NATO è stato "reinterpretato" tramite un documento intitolato "The Alliance’s Strategic Concept" (Il concetto strategico dell'alleanza), datato 24/4/1999 e firmato per l'Italia dall'allora Presidente del Consiglio Massimo D'Alema. Tale documento, quasi ignorato dai mezzi di informazione e dall'opinione pubblica, è rimasto sconosciuto fino al giorno della sua ratifica, e non è stato oggetto di nessun tipo di discussione, controllo o verifica e men che meno ratifica da parte di organi elettivi. È possibile recuperare il documento integrale all'indirizzo http://www.nato.int/docu/pr/1999/p99-065e.htm. Nel capitolo «The Purpose and Tasks of the Alliance» (“Scopo e compiti dell'Alleanza») al punto 6 viene specificato che «The fundamental guiding principle by which the Alliance works is that of common commitment and mutual co-operation among sovereign states in support of the indivisibility of security for all of its members» («Il principio guida fondamentale per cui l'Alleanza funziona è quello del coinvolgimento comune e la mutua cooperazione tra stati sovrani in supporto alla indivisibilità della sicurezza di tutti i suoi membri»).
[7] p.e. il Comune, la Regione, lo Stato
[8] p.e. un Parlamento o un Consiglio Comunale
[9] p.e. l'Alto Adige-Sudtirol o il Nord Irlanda
[10] p.e. i Paesi Baschi, il Kurdistan o i Territori Occitani
[11] p.e. i Rom
[12] p.e. le abitazioni e gli oggetti di vita quotidiana delle persone o le bellezze naturali e culturali, ma anche le materie prime, gli impianti industriali, le infrastrutture del proprio territorio
[13] p.e. le materie prime vitali provenienti dall'estero, le organizzazioni produttive multinazionali o pacchetti azionari operanti sul mercato globale
[14] Nuovamente al punto 24 del citato documento «The Alliance’s Strategic Concept» sta scritto: «Alliance security interests can be affected by other risks of a wider nature, including acts of terrorism, sabotage and organised crime, and by the disruption of the flow of vital resources» («Gli interessi di sicurezza dell'Alleanza possono essere toccati da altri rischi di più ampia natura, includendo atti di terrorismo, sabotaggio e il crimine organizzato, e dall'interruzione del flusso di risorse vitali»).
[15] p.e. gli anziani, i nullatenenti
[16] p.e. i cittadini o i sudditi perché nati all'interno dei confini statali
[17] p.e. i figli di propri cittadini
[18] p.e. i residenti, gli abitanti, gli immigrati, i rifugiati
[19] Nel citato documento "The Alliance’s Strategic Concept" che aggiorna gli scopi della Trattato NATO, al punto 24 sta scritto «The uncontrolled movement of large numbers of people, particularly as a consequence of armed conflicts, can also pose problems for security and stability affecting the Alliance» («Il movimento incontrollato di grandi numeri di persone, particolarmente come conseguenza di conflitti armati, può anche porre problemi per la sicurezza e stabilità riguardanti l'Alleanza»). La sola presenza di persone "straniere", a prescindere dalla loro aggressività, viene quindi considerata una minaccia a cui rispondere.
[20] p.e. gruppi religiosi, gruppi linguistici, gruppi razziali
[21] p.e. il diritto alla vita, all'alimentazione, alla libertà
[22] p.e. holding finanziarie o multinazionali
[23] p.e. i golpe perpetrati dalle forze armate
[24] p.e. mafie o truppe mercenarie
[25] p.e. con ospedali ed ambulanze
[26] p.e. quella degli incendi con i pompieri o quella delle tempeste, soprattutto nei mari del nord Europa, con le guardie costiere
[27] p.e. nelle vicende del Vajont o di Bophal
[28] p.e. le risorse da dedicare alla ricerca sulle malattie vengono sempre più difficilmente reperite, tanto da costringere gli enti di ricerca a ricorrere alla solidarietà dei telespettatori, mentre ingenti risorse vengono regolarmente allocate per l'acquisto di sistemi d'arma. Se, al contrario, si lasciasse alla pubblica beneficenza la raccolta dei fondi per l'acquisto di attrezzature militari e si finanziasse la ricerca medica, le risorse supplementari raccolte sarebbero probabilmente molti inferiori
[29] p.e. facendo educazione alla legalità nelle scuole per contrastare il diffondersi della criminalità organizzata o una corretta educazione ambientale che riduca il livello di inquinamento prodotto dalla popolazione
[30] p.e. con l'addestramento alle emergenze sismiche
[31] p.e. la protezione civile sarebbe concepita come una educazione alla prevenzione, insegnando nelle scuole ad evitare comportamenti a rischio e la difesa da minacce umane come una educazione alla pace e alla risoluzione dei conflitti, insegnando ad affrontare e trasformare quelli personali, sociali e internazionali prima che esplodano violentemente
[32] p.e. addestrando il personale, approvvigionando e organizzando il materiale, studiando e predisponendo attrezzature e infrastrutture adatte
[33] p.e. centri di addestramento, corpi specialistici con i relativi centri operativi e reti di vigilanza ed allertamento
[34] p.e. i corpi speciali integrati nelle Forze di Intervento Rapido o i centri balistici intercontinentali
[35] p.e. l'attuale conflitto irakeno è un esempio evidente di entrambe questi atteggiamenti
[36] p.e. l'esercito italiano, la polizia, i vigili del fuoco
[37] p.e. i contractors in Iraq, gli istituti di vigilanza
[38] p.e. i servizi logistici come la ristorazione o i trasporti
[39] p.e. l'esercito in Svizzera
[40] p.e. la Protezione Civile italiana
[41] p.e. l'esercito di leva
[42] p.e. un conflitto aperto, un incendio o una epidemia
[43] vedi la nota precedente relativa all'audizione del ministro Scognamiglio.
[44] Nel 13° secolo, l'Arciconfraternita della Misericordia di Firenze, costituì la prima istituzione di soccorso organizzato, di ispirazione cristiana, per cui la cura ed il soccorso agli ammalati erano visti come opera di carità. L'espletamento del servizio prevedeva l'anonimato del soccorritore che infatti indossava un cappuccio (detto buffa). Nella seconda metà del 1400, Isabella di Spagna istituì per il suo esercito delle formazioni sanitarie mobili, al seguito dei combattenti, chiamate "ambulancias" che recuperavano i superstiti alla fine della battaglia. Fu Ambroise Pare' (Bourget-Hersent, Mayenne 1510 - Parigi 1590), un chirurgo militare francese, il primo ad organizzare un corpo di pronto soccorso durante la battaglia.
[45] p.e. gli incendi o le malattie, con i pompieri o le pubbliche assistenze
[46] p.e. in una organizzazione di Protezione Civile e un Servizio Sanitario Nazionale
[47] p.e. da colpi di stato
[48] p.e. un terremoto, un colpo di stato o un attacco nucleare
[49] p.e. la predisposizione di alloggi temporanei per sfollati e sinistrati, la bonifica di terreni infestati da ordigni o devastati da movimenti di terreno
[50] p.e. prevedendo almeno la conservazione del posto di lavoro, analogamente a ciò che avviene adesso per i volontari di Protezione Civile
[51] p.e. prevedendo il diritto a partecipare al Servizio Civile Nazionale per un periodo della propria vita
[52] p.e. durante la formazione dei volontari in Servizio Civile verrebbe fornita, oltre alla preparazione finalizzata a svolgere il servizio ordinario, una specifica preparazione finalizzata all'organizzazione della difesa dalle minacce collettive